Il malessere idrico italiano

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Un Paese è 'malato' dal punto di vista idrico, allorché dispone di meno di 1700 m3 all'anno per persona tutti usi confusi (idropotabili, irrigui, industriali, energetici).
Si parla di 'stress idrico' quando un Paese dispone tra 1000 e 1700 m3 all'anno per persona, e di 'crisi idrica' al di sotto dei 1000 m3. Se ci limitiamo all'acqua per usi domestici, la cifra comunemente considerata, secondo l'OMS come la quantità sufficiente per la vita, nella qualità richiesta sul piano batteriologico, è di 50 litri al giorno per persona (più o meno 15 m3 /anno per persona).
Non è nel senso sopraindicato che parliamo di 'malessere idrico italiano'. L'Italia fa parte dei Paesi che dispongono più di 1700 m3 : 3052 m3/ anno pro capite a livello di disponibilità teoriche secondo i dati del Ministero dell'Ambiente.
Per 'malessere idrico italiano' intendiamo l'insieme dei mali che caratterizzano lo stato attuale dell'acqua in Italia e che fanno si che tra tanti altri risultati v'è anche il fatto che la disponibilità d'acqua effettivamente utilizzata, conto tenuto dello stato della rete infrastrutturale esistente, scende a 928 m3/ anno pro capite e che, come vedremo, il 70% della popolazione delle regioni del Sud non dispone di un accesso all'acqua regolare e sufficiente.
Gli otto mali che proponiamo sono di varia natura : essi vanno dalla povertà delle conoscenze esistenti sulla situazione dell'acqua in Italia all'abbandono dei servizi d'acqua agli appetiti degli interessi finanziari (a seguito dell'obbligo imposto a tutte le aziende municipali d'acqua di trasformarsi in 'società per azioni'), passando per una manutenzione insufficiente ed inefficace delle infrastrutture (fognature, acquedotti, invasi) che va di pari passo con una caduta spettacolare degli investimenti.
Il primo male che salta agli occhi è alquanto sorprendente in un'era in cui l'Italia afferma di essere una 'società dell'informazione', una 'società della conoscenza'.

Una conoscenza frammentaria ed insufficiente.
Il Rapporto Ambiente Italia 2000 della Legambiente sottolinea che l'Italia 'non dispone di dati relativi all'andamento dei consumi per usi industriali a livello nazionale.' Non esistono dati nazionali relativi agli anni ‘90 sul prelievo idrico per usi civili', né dati certi per quanto riguarda la qualità delle acque. Gli unici dati raccolti a livello nazionale con un protocollo abbastanza rigoroso sono quelli sulla balneazione. Non esistono rilevamenti sistematici riguardanti le acque sotterranee .
Le lacune sono confermate dall'ultima Relazione sullo stato dell'ambiente 2OO1 redatta dal Ministero dell'Ambiente il quale aggiunge che 'a causa di un'inadeguata disponibilità d'informazioni non è possibile fornire una quantificazione delle pressioni (inquinamento, contaminazione ') esercitate sulla qualità delle acque dai vari settori (agricoltura, zootecnia, industria, settore civile, turismo, energia ').
Ciò a causa 'dell'inadeguato livello di monitoraggio', della scarsa diffusione dei catasti degli scarichi industriali di sostanze pericolose nell'acqua (solo la metà delle province sono dotate di catasti degli scarichi) ', della mancata diffusione dei quaderni di campagna per il controllo dei fitosanitari e per una razionale applicazione delle pratiche agricole (il che consente un uso eccessivo di pesticidi e di nutrienti' . Inoltre, 'allo stato attuale, non è facile fornire un quadro preciso della situazione del servizio di raccolta e di depurazione delle acque reflue urbane, nonostante il notevole lavoro di indagine portato a termine negli ultimi anni' . Infine, 'si conosce poco dello stato delle fognature' . Stesso ritornello da parte dell'Istituto Superiore della Sanità che riconosce di non possedere i dati necessari per verificare e controllare la qualità delle acque in Italia.
La povertà delle conoscenze è cosi' grande che l'Italia non figura in nessuna delle tabelle comparative sulla qualità delle acque in Europa presentate dall'Agenzia Europea dell'Ambiente nel rapporto su 'Uso sostenibile dell'acqua in Europa ?' I cittadini sanno poco o niente di tutto ciò che concerne l'acqua, i problemi d'inquinamento e di contaminazione, la fissazione dei prezzi dell'acqua per usi irrigui od industriali. Quanti Italiani sanno oggi quanto costa il m3 ad un agricoltore , ad una grossa impresa agricola o zootecnica o ad un ‘impresa cartiera, alla FIAT ? E quanti conoscono il prezzo reale del m3 dell'acqua potabile in Italia, nelle loro città, nei loro comuni ? La povertà delle conoscenze non è il solo male 'che sorprende'. 'Il pozzo di Antonio' presenta un secondo male sorprendente, paradossale : pur essendo il paese dell'Unione Europea con il tasso di consumo d'acqua pro capite per usi domestici più elevato, un terzo ancora degli Italiani non ha un accesso regolare e sufficiente all'acqua potabile.

Un terzo degli Italiani non gode ancora di un accesso regolare e sufficiente all'acqua potabile, pur essendo l'Italia il paese dell'Unione europea con il tasso di consumo d'acqua pro capita per usi domestici più elevato (78 m³/anno per ambiente).
Circa il 35% della popolazione italiana non ha un accesso sufficiente e regolare all'acqua potabile. E dire che l'Italia è la sesta potenza economica mondiale! Ciò, malgrado il fatto che secondo i dati forniti da EUROSTAT , l'Italia è il paese con il più elevato livello di consumo d'acqua per usi domestici dell'Unione, con 78m3 /anno per abitante, seguita da Spagna e Grecia (rispettivamente con 73 e 71 m3). Il Belgio, la Germania, la Francia e l'Olanda hanno consumi medi tra 41 e47 m3. In realtà, sono le regioni del Mezzogiorno (Sud e Isole) dove abitano più di 20 milioni di abitanti che, secondo l'indagine ISTAT del 1999 7 da cui sono derivati i dati qui riportati, soffrono di tale insufficienza ed irregolarità. Secondo questa indagine, la percentuale della popolazione in difetto va dal 53,8% della popolazione totale in Sardegna all'88,4% in Molise e in Calabria. I dati relativi alle altre regioni del Mezzogiorno sono Sicilia 55,3%, Basilicata 64,0%, Puglia 69,4%, Campania 82,4%, Abruzzo 71,0%. Il terzo male, non è meno sorprendente dei primi due.

Gli Italiani sono i primi consumatori d'acque minerali al mondo. Solo 40% bevono l'acqua di rubinetto.
Dei 213 litri d'acqua potabile consumati quotidianamente, solo 3 servono per bere. Il resto va allo sciacquone (più del 30%), al lavastoviglie ed alla lavatrice (circa il 30 %), al bagno o doccia (idem, 30 %) ed alle piante, al lavaggio dell'auto, del marciapiede. Anche nei luoghi pubblici le possibilità di ricorrere all'acqua potabile per dissetarsi sono diventate del tutto esigue, causa la scomparsa delle fontane Nel frattempo, gli Italiani sono diventati i più grandi consumatori d'acqua minerale al mondo. Le cifre disponibili variano da fonte a fonte ma l'ordine di grandezza resta assai illustrativo.
Secondo Altroconsumo, gli Italiani hanno bevuto nel 1999 155 litri di acqua imbottigliata a testa (per un totale di 10,5 miliardi di litri d'acqua) 9. Per il quotidiano tedesco Die Zeit, gli Italiani sono i primi con 140 litri /anno seguiti dai Belgi (124 litri) e poi dai Tedeschi (99 litri). All'ultimo posto, gli Olandesi con 17 litri. I Tedeschi spendono di più perché pagano l'acqua minerale molto di più degli Italiani : 1,77 € contro 0,72 € al m3 in Italia. Inoltre, dimostrano una sensibilità ecologica più elevata : 86% delle loro bottiglie è riutilizzabile. Il consumo d'acqua minerale ha registrato un incremento considerevole negli anni ‘90. I Sardi sono quelli che bevono acqua minerale più di tutti gli altri Italiani (quasi il 70% dei Sardi non bevono acqua di rubinetto) all'opposto dei Trentini che continuano a bere l'acqua di rubinetto (91%).
Perché abbiamo incluso il consumo di acqua minerale fra i mali del 'Pozzo di Antonio'? La prima ragione del 'male' sta per l'appunto nella ingiustificata credenza nella purezza e nel più elevato grado di bontà per la salute umana delle acque minerali. L'acqua minerale non è né per definizione né in pratica necessariamente più pura e più sana dell'acqua potabile. Anzitutto l'acqua minerale non è considerata dal legislatore come un'acqua potabile ma come un'acqua terapeutica in ragione di certe caratteristiche fisico-chimiche che ne suggeriscono un uso per fini specifici. Per queste ragioni è consentito alle acque minerali di contenere delle sostanze come l'arsenico, il sodio, il cadmio in quantità superiori a quelle invece interdette per l'acqua potabile. Nel mentre non è permesso ad un'acqua potabile avere più di dieci parti per microgrammo di arsenico, è cosa frequente che la maggior parte delle acque minerali contenga 40/50 parti di arsenico per microgrammo. E non sono obbligate di menzionare sulle etichette. Lo stesso vale per altre sostanze minerali. Il che spiega che può essere nocivo alla salute il bere sistematicamente la stessa acqua minerale senza controllo medico. Ricordiamo inoltre che nel febbraio 2000 l'Italia ha ricevuto un ammonimento da parte della Commissione dell'Unione europea perché i valori massimi previsti per alcune sostanze oligominerali e oligocomponenti nelle acque minerali italiane erano superiori alle norme imposte a livello comunitario.
La seconda ragione del 'male' risiede nel fatto che se - come abbiamo visto - l'acqua minerale non è né più pura né più sana della potabile è certamente molto più cara : dalle 300 alle 600 e persino 1000 volte più cara. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno di sfruttamento a fine di lucro di un bene domaniale pubblico che secondo quanto ha riconfermato la legge sull'acqua del 1994 (la legge Galli) fa parte del patrimonio inalienabile delle Regioni. Lo sfruttamento avviene con il beneplacito formale ed esplicito delle autorità pubbliche. Le Regioni hanno ceduto il diritto di gestione delle acque minerali a delle tariffe ridicolmente basse. Il caso della Lombardia, una delle regioni a più alta densità di fonti minerali illustra bene la situazione. Su più di 1 miliardo di euro che rappresentano il business delle acque minerali in Lombardia (su un valore totale nazionale di 2,8 miliardi) per 8 miliardi di litri d'acqua estratti di cui solo 2 miliardi e mezzo sono stati imbottigliati e venduti (che fine hanno fatto gli altri 5,5 miliardi di litri estratti ?), la regione lombarda ha visto arrivare nelle sue casse meno di 155.000 euro (0,0155%) , una miseria rispetto agli incassi delle imprese private. Quel che è ancor più grave è che siccome più dell'80% delle acque minerali imbottigliate in Italia sono in plastica (in PET) ed il costo di una bottiglia in PET si aggira sui 0,11 euro contro i 0,026 euro per la bottiglia di vetro, i poteri pubblici delle regioni devono spendere per lo smaltimento dei rifiuti in plastica delle somme considerevolmente più elevate di quanto siano gli incassi che ottengono con le concessioni. Il business dell'acqua minerale è un business a forte concentrazione industriale e finanziaria. Nestlé (multinazionale svizzera) e Danone (francese) sono rispettivamente la numero uno e la numero due delle imprese mondiali d'acqua imbottigliata. Da sole rappresentano più del 30% del mercato mondiale. Nestlé possiede più di 260 marche d'acqua minerale attraverso il mondo, fra cui figurano Vittel, Contrex, Perrier (la più importante al mondo) e le 'italiane' San Pellegrino, Levissima, Panna. Fanno parte invece della Danone Ferrarelle, San Benedetto ' Il grande business delle minerali in Italia è, dunque, fonte di benefici soprattutto per gli azionisti della Nestlé e della Danone. Sono commercializzate in Italia 266 acque minerali. Di queste la San Pellegrino (gruppo Nestlé), la San Benedetto (gruppo Danone) e la Co.ge.di Italacqua coprono da sole i ¾ del mercato italiano.

La terza ragione del 'male' risiede nella mercificazione dell'acqua e nella privatizzazione dei servizi d'acqua.
Il mondo commerciale dell'acqua minerale sta scombussolando l'intero settore dell'acqua. Attirate dagli alti livelli di profitto e dalle allettanti promesse future del business acqua, potenti imprese come Coca Cola sono entrate anch'esse nel settore introducendo un nuovo tipo d''acqua da bere', l'acqua 'purificata'. L'acqua 'purificata' non è altro che dell'acqua d'acquedotto sottomessa ad alcune operazioni di demineralizzazione e di declorizzazione.
Piano piano, il legislatore ha autorizzato anche in Italia la vendita in bottiglia dell'acqua di rubinetto. Una grande confusione caratterizza sempre di più il 'business dell'acqua' composto di un numero crescente di tipi d'acqua : acqua potabile di rubinetto, 'acqua da tavola' (si tratta di acque potabile in bottiglia), acqua potabile in bottiglia 'naturale' con 'aggiunta di anidride carbonica', acqua 'purificata', acqua naturale minerale (acqua minimamente mineralizzata, acqua oligominerale, acqua minerale terapeutica), acqua di sorgente (cioè acqua potabile prelevata alla fonte ma che non può esser clorata. Tutte le acque minerali sono di sorgente ma non tutte le acque di sorgente sono minerali), acqua di sorgente 'naturale', acqua di falda. L'espansione del 'mercato dell'acqua' ha condotto ad un rimescolio delle carte a livello delle imprese : le imprese tradizionali d'acqua minerale sono entrate nel settore dell'acqua potabile in bottiglia e, viceversa, le imprese d'acqua potabile cominciano ad intervenire nel settore delle acque in bottiglia (minerali comprese).
Lo stesso dicasi delle imprese di 'soft drinks' (limonate, cola, bevande gassate') e del latte (la Parmalat,per esempio, ha messo sul mercato una sua acqua in bottiglia, l''Aqua Parmalat').

Quarto male: Il 'pozzo di Antonio' é inquinato.
Il degrado del patrimonio idrico del Paese non cessa di aggravarsi. Gli Italiani sfruttano le risorse idriche nazionali in maniera eccessiva e sconsiderata. L'agricoltura 'beve' il 50% dei prelievi totali.
L'agricoltura rappresenta il principale settore di consumo d'acqua dolce, essenzialmente per l'irrigazione. Gli usi irrigui 'bevono' il 50% dei prelievi totali d'acqua, il 30% essendo rappresentato da usi industriali ed energetici, il 20% da usi domestici. Ora, la produttività dell'acqua usata nell'agricoltura è in Italia una delle più basse dell'Unione europea. Cosi i prelievi irrigui a partire dalle acque sotterranee tendono ad aumentare, e cosi anche l'inquinamento da nitrati e pesticidi. Nella regione padana e del Nord-Est, più di 2,5 milioni di abitanti sono riforniti da fonti in cui le concentrazioni di nitrati e di atrazina superano i limiti consentiti dalla legge. Quel che è in causa è la 'grande agricoltura', il grande agrobusiness, la cui logica è diventata sempre di meno il cibo, la funzione alimentare, la promozione di una cultura locale e la valorizzazione della terra. Se si pensa che le superficie agrarie effettivamente irrigate in Italia sono state nel 1999 di 2,7 milioni di ettari, l'acqua allocata ad usi irrigui corrisponde ai bisogni domestici di 540 milioni di persone.
Le stesse osservazioni valgono, in via generale, per le attività industriali. La loro incidenza sull'ambiente tende pero' a diminuire: da un lato perché, sotto la pressione dell'opinione pubblica, l'industria ha dovuto operare dei mutamenti significativi nei processi di produzione e nei prodotti stessi; dall'altro - e soprattutto - perché una granda parte delle attività industriali ad alto livello d'inquinamento quali il tessile, la chimica di base, la metallurgia, l'industria automobilistica hanno abbandonato l'Italia, come lo hanno fatto in tanti altri paesi 'sviluppati', per localizzarsi nei paesi poveri e meno industrializzati dove i vincoli 'ambientali' e sociali sono più deboli e meno numerosi.
L'impronta ambientale dell'industria rimasta in Italia resta però pesante, specie quella dell'industria dei settori energetici, dei trasporti, della costruzione, dei rifiuti urbani. Questi ultimi sono diventati dei settori industriali 'nuovi' fra i più inquinanti per le acque. In questo contesto, mantenere lo stato attuale della gestione dei rifiuti urbani e della depurazione delle acque reflue urbane costituisce un comportamento dei più deplorevoli. Secondo un'inchiesta condotta da Altroconsumo in sette regioni italiane (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto) e due province (Bolzano e Trento) che hanno accettato di collaborare all'inchiesta, il sistema di impianti per la depurazione delle acque è carente, disomogeneo nel territorio, e funziona male.
Solo 62% tra quelli coperti dall'inchiesta sono gli impianti che effettuano i trattamenti terziari, cioè i processi avanzati di depurazione dei liquami che sono d'obbligo, secondo le norme europee, per quelle aree più sensibili alle ripercussioni ambientali, come le zone marine. Per il 33% degli impianti, i gestori dichiarano di non effettuare la disinfezione delle acque. Di fatto in nessun impianto viene condotto un monitoraggio microbiologico.
Una reale gestione delle acque reflue urbane in Italia resta un miraggio, malgrado le precise scadenze della legge italiana (il decreto 152/99), i richiami e le numerose multe comminate all'Italia da parte dell'Unione Europea e, beffa maggiore, il fatto che da diversi anni i cittadini italiani paghino, ciascuno, una tariffa per la depurazione delle acque con la bolletta dell'acqua potabile e calcolata come quota su ogni metro cubo di acqua utilizzata!
La situazione della depurazione è particolarmente allarmante nelle regioni del Sud. Nel Nord i progressi compiuti sono importanti. A Ferrara, per esempio, la percentuale della depurazione delle acque reflue è 84% A Mantova, praticamente è il 100% (99% per la precisione). Sono rare invece le città del Sud che dispongono dei depuratori e dove la depurazione delle acque reflue supera il 25%. La depurazione costa ed i suoi costi sono in aumento, il 70% dell'aumento nazionale annuo tra il 1996 e il 1998 di 16,50 euro per famiglia è dovuto sostanzialmente alla depurazione. Ma si tratta di costi irrisori quando si pensa che un Italiano spende allegramente in media circa 310 euro annue per il consumo di acque minerali. Il fattore 'costo' sembra all'origine del quinto male. Gli Italiani non hanno voluto spendere quel che dovevano per mantenere in buone condizioni lo stato del 'pozzo di Antonio' e migliorarlo. Nel mentre hanno speso ('investito'!) in questi ultimi anni qualche milioncino di lire a testa per i giochi d'azzardo di ogni specie, gli Italiani hanno diminuito sistematicamente le spese destinate alle infrastrutture necessarie alle varie fasi del ciclo dell'acqua, dall'adduzione alla depurazione.

Il pozzo di Antonio è malandato e mal tenuto. Il crollo degli investimenti. Il pozzo perde da tutti i lati.
Malgrado l'evidente persistenza di notevoli carenze infrastrutturali, gli investimenti in opere per il settore idrico sono diminuiti tra il 1985 ed il 1998 in maniera considerevole, addirittura più rapidamente della media delle opere pubbliche.
Il crollo degli investimenti non è dovuto solo alla diminuzione delle risorse finanziarie allocate dai poteri pubblici ai servizi idrici ma anche in buona parte al fatto che le autorità preposte non hanno speso entro i termini prescritti una percentuale importante delle risorse disponibili erogate specialmente dall'Unione Europea. Le regioni del Nord hanno speso poco più della metà (53,7%) dei mutui erogati per opere idriche. Le regioni del Sud solo 22,7%. Il fatto è - ci riferiamo cosi' al sesto male - che il potere pubblico non solo ha mantenuto un'eccessiva frammentazione dei soggetti responsabili della gestione, ma ha condotto una politica deliberata di impoverimento delle finanze pubbliche locali e di discredito del ruolo gestionale delle aziende municipali pubbliche.

La gestione municipalizzata pubblica diretta ('in economia') delle acque è stata messa in crisi. Lo Stato ha preferito il privato.
Mantenere per decenni una grande frammentazione della gestione dei servizi idrici è stata una delle maniere più efficaci per rendere la gestione pubblica dell'acqua inefficiente ed inadeguate. La frammentazione era anche fisica: 13.500 reti per adduzione – distribuzione ; 13.000 reti fognarie ; 11.000 impianti di depurazione. Il numero dei gestori era di poco superiore al numero dei comuni. V'era dunque una relazione diretta tra gestori e comuni. La situazione sta cambiando rapidamente a seguito delle misure prese negli ultimi anni miranti a favorire la fusione/aggregazione di enti gestori a livelli territoriali più vasti.
E' stato un merito della Legge Galli quello di aver riorganizzato l'insieme della gestione dei servizi idrici sulla base di ambiti territoriali di dimensioni più consistenti e comprendenti l'intero ciclo dell'acqua, con la creazione delle Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (gli ATO). Gli ATO sono definiti in funzione dei bacini acquiferi. In generale, gli ATO coprono il territorio di parecchi comuni ed 'attraversano' i confini delle province.
La non-corrispondenza tra il territorio coperto dagli ATO e quello su cui ricade le responsabilità delle collettività locali, è stato una dei fattori che ha frenato l'applicazione delle legge Galli che resta una legge ancora largamente inapplicata., La Legge Galli è stata 'usata' dal sistema politica italiano per rendere ancor più confuso e generatore di conflitti e d'inadempienze lo stato della gestione locale dell'acqua. Conseguenza : le aziende municipali pubbliche hanno visto la loro credibilità gestionale perdere ancor più quota.
Tra l'altro, la stessa Legge Galli ha parzialmente contribuito a deteriorare l'immagine delle aziende municipali imponendo il superamento – di fatto, l'abbandono – per le gestioni pubbliche esistenti della modalità 'in economia' (gestione diretta) ritenuta inidonea alle dimensioni 'imprenditoriali' necessarie alla gestione dei servizi al livello richiesto a seguito dei raggruppamenti territoriali previsti dalla legge, aprendo la via alla privatizzazione parziale e/o generalizzata dei servizi d'acqua. 'Il sesto male' risiede per l'appunto in questa 'preferenza per il privato'. Si tratta di un male per due motivi fondamentali. Il primo, per il fatto che la stessa classe politica ha deciso di modificare la funzione del politico attribuendo il potere politico a dei soggetti privati.
Il secondo motivo è relativo alle mercificazione dell'acqua e, per conseguenza, alla mercificazione dell'accesso alla vita. I dirigenti hanno rifiutato di considerare l'acqua come 'un bene comune', ma hanno preferito consideralo essenzialmente come 'un bene economico', la determinazione del cui valore deve essere lasciata ai meccanismi di mercato. Non bisogna dimenticare che il mondo finanziario ed industriale-commerciale é fondato su una forte volatilità dei soggetti, delle istituzioni, delle imprese.
La Swissair e la Sabena sono sparite nel giro di pochi mesi. La Générale des Eaux è diventata parte minoritaria del conglomerato Vivendi Universal cresciuto come un gigante mondiale della comunicazione nel giro di 2-3 anni, ma che rischia di crollare altrettanto rapidamente. La società AOL non esisteva 8 anni orsono: essa ha comprato le 'grandi' e venerabili Times, Warner, Disney. Thames Water la n° 3 mondiale dell'acqua é stata acquistata nel 2001 dal gigante energetico tedesco RWE. Lo stesso destino é toccato al n° 1 americano dell'acqua, la US Filter, diventato una filiale di Suez. Quel che conta sottolineare in merito, é che tutte queste operazioni d'acquisto, fusioni, partecipazioni incrociate e mobilità delle imprese da un settore all'altro non si traducono necessariamente in un miglioramento dei prodotti e dei servizi nell'interesse delle popolazioni delle città, delle regioni e dei paesi implicati. Esse si traducono principalmente in un plus valore per il capitale dell'impresa che 'vince'.

I conflitti locali sull'acqua non fanno che aumentare ed aggravarsi in nome di interessi 'locali' e corporativi.
Un esempio tra i tanti ; il caso di Publiacqua a Firenze il cui interesse si rivela su tre livelli: il comportamento dei partiti politici, la strategia dei sindacati, il ruolo dei movimenti di cittadini.
In ottemperanza alla Legge Galli, l'amministrazione comunale (Ds) il cui partito aveva già promosso e sostenuto la Legge in questione, decide di optare per l'attribuzione a Publiacqua, senza asta pubblica ma ad assegnazione diretta, la gestione delle risorse idriche dell'ATO 3 comprendente i comuni del Mugello e della Val di Sieve oltre che i comuni di Firenze, Empoli e Pistoia. Publiacqua fa parte di Publiservizi, una spa che gestisce di già i servizi di 47 comuni toscani fra i quali, per l'appunto, Firenze, Empoli e Pistoia. Publiservizi è diventata dal 1° luglio 2001 una multi-utility comprendente oltre Publiacqua (controllata al 61%), Publienergia (97,5%), Publiambiente (97,5%) Publicogen (51%), Publinet (51%) e Publicase (49%).
Presidente del consiglio d'amministrazione di Publiacqua é un ex-assessore Ds del comune di Firenze. Per meglio organizzare l'assegnazione diretta, il Comune di Firenze apre una gara informale per identificare un 'adviser' nella figura della Deloitte e Touche Corporate Finance, parte della Deloitte e Touche Tohmatsu, la finanziaria multinazionale anglo-giapponese specializzata nella gestione delle risorse umane, l'informatica, le privatizzazione, le joint ventures, le fusioni'e tante altre attività.
Su questo contesto s'innestano i conflitti. Primo quello promosso dai sindacati che si battono per la difesa dell'occupazione contro l'operazione orchestrata dall'amministrazione comunale. Secondo le stime sindacali, il passaggio alla gestione privata avrebbe ridotto l'occupazione da 5.800 persone a poco più di 2000.
Si è trattato di una scelta strategica limitata e debole perché essi sono stati accusati di pensare esclusivamente alla difesa dei loro interessi settoriali. In effetti, i sindacati ammettono che avrebbero dovuto portare la loro battaglia principalmente contro la privatizzazione e difendere la validità e l'utilità del bene comune acqua e dei servizi comuni pubblici. Il secondo conflitto è stato provocato da Forza Italia, partito all'opposizione a livello comunale ma partito dominante a livello nazionale.
Forza Italia fa approvare dal 'suo' ministro nazionale in carica un decreto che impedisce alle collettività locali di assegnare la gestione dei servizi pubblici locali senza gara formale. La procedura é quindi bloccata. L'atto di Forza Italia é chiaramente opportunista perché il loro partito, maggioritario a livello del comune di Arezzo, ha affidato la gestione dei servizi idrici di Arezzo ad una società privata con la procedura dell'assegnazione diretta, senza procedere ad alcuna gara formale. Infine, la terza fonte di conflitto è stata aperta dai movimenti associativi locali (in particolare dal CPA, Centro Popolare di Autogoverno) che, per manifestare la sua opposizione alla privatizzazione, ha occupato l'edificio di una ex-scuola secondaria destinata a diventare la sede di Publiacqua. Ciò che emerge dall'insieme degli esempi è che, in ogni caso:

- gli interessi settoriali economici, finanziari ed industriali tentano sistematicamente di imporsi su ogni altra considerazione relativa alla salvaguardia ed alla promozione dell'acqua come bene comune;
- le forze politiche, e la grande maggioranza dei sindacati hanno aderito, senza alcuna espressione chiara di volere un'eventuale 'retromarcia', alla tesi dell'acqua come bene economico ed alla privatizzazione dei servizi d'acqua (ciclo integrale);
- é grazie alla mobilitazione dei cittadini, che situazioni pericolose sono state risolte positivamente e che la coscienza 'civile' e democratica nel settore dei servizi pubblici sta recuperando forza e spessore.

Il peso dell'Italia nella politica dell'acqua europea, mediterranea e mondiale é praticamente nullo.
Sottolineando in maniera forte questo 'ultimo' male ; la nostra intenzione non é assolutamente quella di proporre una politica di tipo nazionalista e di 'riconquista' del peso che 'toccherebbe' all'Italia sulla scena europea, mediterranea e mondiale, ma bensi di sollevare il problema e di stimolare un dibattito , in particolare sul ruolo e sulla posizione che i poteri pubblici italiani devono e possono assumere e difendere in materia di politica dell'acqua.
La situazione a livello mondiale é semplicemente desolante. Le autorità italiano non hanno avuto e continuano a non avere nessun peso in seno alle principale istituzioni che costituiscono, attualmente, una specie di 'oligarchia mondiale dell'acqua'.
Ci riferiamo al
- World Water Council, che organizza ogni tre anni il Foro Mondiale dell'Acqua che é diventato 'l'assemblea' mondiale la più importante e influente al mondo nel campo dell'Acqua. Il World Water Council, voluto da una serie dei più importanti organismi internazionali tecnici, professionali e scientifici operanti nel campo, é stato creato nel 1996 con il sostegno della Banca Mondiale e di alcuni Stati (la Svezia, il Canada, il Giappone, la Francia, l'Olanda, l'Egitto'.);
- Global Water Partnership, che costituisce, in un certo senso, il braccio operativo del World Water Council. Creato, anche questo organismo, con il sostegno della Banca Mondiale e degli Stati sopra citati, é diventato 'l'organo' di promozione, diffusione e sostegno, in tutti i paesi 'sottosviluppati', del modello francese di privatizzazione dei servizi idrici denominato 'PPP' (Partenariato Pubblico Privato);
- World Commission on Water for the 21st Century, creata nel 1999 con il sostegno dell'Unesco e di altri organismi delle Nazioni Unite operanti nel settore dell'acqua (FAO, WHO, WMO, UNEP, UNDP..)
- Global Water Assessment Programme, costituito nel 2001 su iniziativa della United Nations Commission on Sustainable Development allo scopo di promuovere, a livello mondiale, uno strumento di coordinamento delle analisi e della valutazione dei programmi d'azione realizzati nel campo dell'acqua ad opera delle istituzioni internazionali. Uno dei primi compiti del GWAP è quello di redigere il Rapporto Mondiale Annuale sull'Acqua.