Flash d'estate tra l'Asti cittadina e la provincia ...

Imagedi Gianfranco Miroglio.
Città. Pieno centro.
Questa estate spesso mi è accaduto, passeggiando nei momenti in cui le sere diventano notti, di invischiarmi in grovigli improvvisi,  umidi di rumore.
Una via crucis tribale e abbastanza profana, che rimbalza e che cresce ma senza darsi un senso da un bar all’altro. La rabbia dei decibel, un’assenza completa di armonia e di equilibrio per mummificare altri grovigli appiccicati ai pilastri dei portici, appesi ai tavolini e alle tartine dei dehors, ammassati e marmorizzati dai neon.
Grovigli mediamente muti, gesti semiautomatici di gambe e di tacchi, di gomiti e di mignoli. Grovigli apparentemente divisi per caste e per luoghi d’origine.

Compattati da un’aggressività implicita, epidermicamente neutra e bonacciona; divisi, però, da un’allegria meccanica, dal dovere e dal fastidio di stare lì, senza sentire, senza parlare, senza quasi poter ascoltare.
Fino a una transumanza tarda di sbadigli e di stracci, di bottiglie e di cocci. Vola un pugno, ogni tanto, contro le facciate pallide dei palazzi. Macchie bluastre, invece, si specchiano sui porfidi.

Basta non farci caso.
E’ l’invadenza assurda di un brulichio, di un ringhio, sminuzzati  fin dentro i vicoli, sotto gli androni, in cima alle mansarde; addirittura nelle enclavi – in genere sede e  monopolio del dialogo - delle sale e delle trame dei film.
Tamburi a rullare e rullare.
Movida astigiana: il top di una creatività figlia povera di scimiottamenti lontani e diffusi.
Niente di male, niente di bene, un fiato patetico di gente che non si chiede neppure perché. Riti d’estate, dicono.

Così, a più riprese, cercando di corsa una via d’uscita dalla matassa, mi è venuto di pensare ai riti d’estate di qualche anno fa.
Certo, forse è solo un altro genere di patetico, ma concedetemelo. 
Un juke box isolato, quasi sommesso, per i viali dei giardini pubblici, panchine in fila come i rami degli alberi e le lampade dei lampioni sopra;  chioschi di vimini e di  tamarindo.
Gli affetti all’uncinetto dei cortili; l’era e l’atmosfera di appuntamenti irripetibili di banalità; trappole d’occhi e di cuori da cui non c’era verso d’uscire.
Occhi  e cuori delle tate e delle tote.
Musica appena-appena per sottolineare la calma delle chiacchiere e delle stelle, dei pensieri e dei progetti o dei sogni;  momenti prevalentemente lunghi per dire e per capire, per ascoltare, per accogliere, per abbracciare.
Lo stare abbastanza bene, lo stare abbastanza insieme. Dentro. 

Domanda del tutto retorica: perché ci siamo ridotti così, perché stiamo riducendo così la voglia e il bisogno di una relazione, di una pace, di una forza.
Perché stiamo rinnegando una complicità cara e calda con i posti, con i muri, con le ombre, con i sorrisi e con le carezze.
In cambio le urla, le unghie, i denti e le bave di chi pensa  - e chi riesce impunito - a rubarci le notti, ad affittarsi la luna, a svendersi le stelle; di chi pretende di domare e distrarre le nostre sensazioni, di chi crede di poter manipolare le nostre emozioni fino a farne suggestioni brevi o intermittenze da insegne.
Ti accendi e ti spegni.  Poi da capo.

I soliti noti. Gli stessi che, tra qualche settimana, inizieranno ad arrostirci il natale con dei totem a gaz fatti apposta per trasformare i dehors in eterne primavere (fiordalisi, palme, aragoste e infradito, tutto di plastica, come gli stuzzichini e le brioches, come le vallette/commesse che, povere loro, sono costrette a sculettarci in mezzo).
C’è un miraggio diffuso contro gli orizzonti e i fondali dei teatrini. Produrre tanto denaro e magari qualche cretino in più. Che alla fine poi, nel contesto specifico, rende.
E non è neppure strano che, ai soliti noti,  le nuove amministrazioni “delle libertà” – lungi dal porre norme o freni –  abbiano sponsorizzato il giocattolo  (20.000 euro, declinano le leggende popolari, per consentire ai creatori di questo carillon sincopato di “fare cultura”).
Proprio gli stessi amministratori che, invitati a un saggio tavolo per la gestione integrata dei musei cittadini, ci si sono seduti soltanto per dire che “cari voi, non c’è più trippa per gatti” e che loro hanno ben altre priorità  in base alle quali dare risposte a chi vota.
Appunto. I giorni passati e che passano confermano le loro “priorità”.

Ambiente, natura e cultura: puri optional, chiodi fissi di quattro nostalgici … Non ne vale la pena.
Cosa vale? Tangenziali che non servono, inceneritori che inquietano, silos per lamiere e parcheggi che mortificano i monumenti e gli spazi della parte più bella e più antica della città.
Dietro le amministrazioni, naturalmente, i consueti registi – nomi, cognomi e progetti – trasversali ai capoversi della politica, snodati e distesi come i festoni della gramigna sulle mappe della città e della provincia.

Ultimo flash per esaurire lo sfogo. Ancora  a merito delle “grandifirme”.
ImageImmagini di uno scempio.
Quello – noto – della cava di Cortiglione.  Trattatasi di “rinaturalizzazione”.
Mal-fatta ad arte e per “legge”.
Migliaia di piantine buttate a marcire negli stagni di argilla o a seccare nelle gobbe di un deserto. Migliaia! Non se ne è salvata una! Sparate lì senza predisporre i terreni, fuori stagione, fuori luogo, fuori di senso.
Spreco e strazio: per il paesaggio, per la memoria, per le risorse.
Soldi - forse privati  - al vento,  apposta per risucchiare altri soldi - probabilmente pubblici – per sanare.
Chi ne è responsabile, a chi chiedere conto, chi controlla?
Domanda solita e facile, risposta facile ma disattesa.
Ci sarà mai  la data e la bulla di un “basta” in controtendenza?
Si dubita a buon diritto.

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