Imparare a dire no

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Nadia Covacci è una Psicologa esperta nei processi di inclusione sociale delle persone con disabilità.
Si è trovata ad Asti e si è imbattuta nei progetti di "albergo etico" e del ristorante etico "Tacabanda" e ne ha tratto queste critiche conclusioni, che pubblichiamo allo scopo di aprire un (sereno) dibattito costruttivo ...

La scorsa settimana ho visto in televisione un assessore di Asti – non ricordo se fosse l’assessore al Turismo o alle Politiche sociali - elogiare un progetto per la sua città: “Asti, modello ideale di città etica”. Tutto iniziò cinque anni fa quando progettarono di costruire un cosiddetto albergo etico ovvero il solito luogo privo di barriere architettoniche, gestito da persone con SD (Sindrome di Down) sottopagate o proprio non pagate, pubblicizzato come luogo di integrazione, ma che, di fatto, altro non è che un ghetto, o uno zoo, dove chi si reca a mangiare e dormire lo fa per vedere “come sono bravi i down a fare i camerieri” e sentirsi la coscienza a posto ...

A distanza di cinque anni dell’albergo nemmeno l’ombra. Sembra che il Comune abbia dato il suo patrocinio, ma che da allora aspettino che qualche benefattore si faccia carico delle spese di costruzione/gestione.

Per non perdersi d’animo, gli assessori al turismo e alle politiche sociali sono usciti da casa, si sono guardati un po’ intorno, si sono resi conto che la città è inaccessibile anche al più ginnico dei cinquantenni e hanno deciso di aderire a un progetto voluto dall’associazione Aisla, denominato “Via il gradino”, che intende promuovere l’utilizzo di pedane davanti ai locali commerciali. Fin qui tutto lodabile se non si prestasse attenzione ai particolari: le prime 100 pedane sono state acquistate senza alcun rilevamento delle barriere architettoniche da eliminare. È un po’ come comprare un paio di scarpe senza conoscere la lunghezza del piede, manca di progettazione e perde di utilità. A conferma di queste previsioni c’è il link che descrive le pedane acquistate (ciascuna per soli 75 euro): silver star ramps che una volta appoggiate ai gradini avranno una pendenza del 30% quando la legge impone che la pendenza massima accettabile sia dell’8%! E’ una pendenza superabile solo dai migliori atleti olimpici con qualcuno alle spalle che eviti il ribaltamento all’indietro.

È chiaro che bisogna essere flessibili e accettare il compromesso di fronte ad alcuni gradini molto alti che non possono essere superati rispettando le pendenze di legge perché richiederebbero delle pedane lunghe svariati metri, ma proporre una pendenza del 30% per tutte le altezze è insensato.
I giornali locali ci spiegano che “le pedane, lunghe alcune decine di centimetri e adattabili alle varie esigenze sia di lunghezza sia di peso, potranno essere stese alla bisogna sulle barriere architettoniche e potranno essere ritirate quando sarà terminata la loro funzione”.
È chiaro quindi che è anche messo da parte il concetto di accessibilità che presuppone il diritto di tutte le persone ad accedere autonomamente nei luoghi aperti al pubblico.
Avere delle pedane da sistemare al bisogno richiede necessariamente l’installazione di un campanello di chiamata – di cui non si fa cenno – perché è un paradosso obbligare la persona a entrare nel negozio per chiedere che sia sistemata la pedana per entrare. Una logica di questo tipo presuppone erroneamente e con stigma che la persona con disabilità sia sempre accompagnata da qualcuno.

L’accessibilità condizionata, così si chiama il posizionamento delle pedane al bisogno con campanello di chiamata, non deve essere la norma, ma un’eccezione da consentire nei casi non risolvibili in altro modo. In questo caso, invece, diventa la norma, con il risultato che l’intero progetto sarà inutile e inutilizzabile.

Nelle città in cui hanno attuato un serio progetto di eliminazione delle barriere architettoniche nei locali aperti al pubblico, hanno iniziato tutto con un altrettanto serio lavoro svolto da geometri che hanno preso le misure delle barriere e progettato a norma delle rampe adatte allo scopo, solo successivamente costruite ad hoc.

Eppure l’obiettivo della città di Asti è ancora più ambizioso. Hanno dato il via da qualche tempo al ristorante etico: locali pubblici in cui i camerieri sono persone con SD che hanno frequentato la scuola alberghiera. Cota lo elogia così: “Sono stato più volte al ristorante Tacabanda di Asti - uno di questi locali - dove molti di loro lavorano e posso confermare in prima persona che si può godere di un ottimo servizio e di un’ottima cucina come in tanti altri ristoranti del Piemonte. Questi ragazzi hanno una sensibilità particolare che si rivela una marcia in più in molte occasioni”. Certamente per il proprietario del ristorante è stato facile aderire al progetto: avere a disposizione dipendenti che lavorano gratuitamente e per di più che ti portano clienti incuriositi dalla loro presenza, non è cosa da poco. Ma c’è certamente molto poco di etico in questo. Da una parte si elogiano le doti lavorative di questi ragazzi e dall’altra si finanzia il loro lavoro con stage e borse lavoro spacciandolo per inserimento lavorativo.

Etico. “Un solo criterio permette di valutare la qualità della civilizzazione umana: il rispetto che prodiga nei riguardi dei suoi figli più fragili. Una società che non lo comprende è destinata a scomparire”, recita lo slogan sul sito del progetto, ma nell’attuazione del progetto evidentemente si sono persi un po’ per strada.

Sono stata ad Asti sabato scorso e passeggiando qua e là per le vie della città storica, senza cercarlo, mi sono trovata davanti a questo ristorante Tacabanda. Accanto alla porta d'ingresso un bel cartello recita così: Albergo Etico.
Fantastico, mi sono detta, allora ci sarà sicuramente un ingresso secondario per superare questo gradino di fronte alla porta. Oltre la soglia ci sono solo delle scale che scendono al piano inferiore. Ci sarà sicuramente un ascensore che permetta di scendere nel locale etico. Mio marito e io ci siamo guardati intorno, cercando l’altro ingresso. Etico. Sale un cameriere, si affaccia alla porta, così gli chiedo se c’è un ingresso accessibile.

Non c’è problema, la aiuto io”, risponde.
“Sì, ma c’è un’altra entrata?” gli chiedo.
Non c’è problema, le diamo una mano”, ripete.
“A scendere le scale?”. Devo averlo guardato in modo sufficientemente eloquente, mio marito ha sorriso, consapevole che la risposta del cameriere era quella sbagliata. Ho ringraziato, ma ribadendo il mio no a voler scendere le scale. A quel punto il cameriere, cercando giustificazioni ha peggiorato le cose: “Vengono molti disabili da noi, anche a lavorare, noi tutti i giorni li aiutiamo a scendere…”.

Non sono stata abbastanza sveglia da chiedergli se di lavoro facesse il cameriere o il facchino e se queste persone lavorassero o fossero gratuitamente patrocinate da borsa lavoro. Il fatto è che di fronte a certe risposte rimani proprio basita: la preoccupazione per alcuni commercianti (ancor peggio se si definiscono etici, come in questo caso) è quella di offrirti il loro aiuto come se ciò fosse la soluzione al problema. Si propendono verso di te, si offrono gratuitamente a darti una mano, ma dimenticano del tutto di chiederti: “Lei vuole che la solleviamo di peso per portarla giù lungo una scala ripida?” Si dimenticano di te. Tu non esisti, la tua volontà non è importante. Non era importante che io non volessi scendere le scale, ma era importante che lui si offrisse di farmele superare.

La persona con disabilità spesso manca di considerazione per ciò che sono le sue volontà, le sue esigenze e il rispetto di sé. Chi accetterebbe di farsi prendere di peso da un estraneo per entrare nel suo locale pubblico?

Se l’intento dell’amministrazione astigiana è quello di “ampliare e migliorare l’offerta turistica nei confronti dei turisti con esigenze specifiche, […] per connettere, valorizzare e promuovere l’esistente in un’ottica di qualità che non può prescindere dall’accessibilità e dalla formazione degli operatori sulle tematiche dell’accoglienza per tutti” è evidente che c’è ancora molto lavoro da fare dato che pare nessuno abbia notato questa incoerenza tra ristorante etico-inclusivo e barriere architettoniche che ne vietano l’accesso.

Bisogna imparare a dire no.

I negozianti devono imparare ad accettare i difetti dei loro negozi e incominciare a rispettare la persona che hanno di fronte dicendo no piuttosto che offrirsi di sollevarla di peso mettendola in una condizione di perpetua incertezza dal punto di vista della sicurezza – perché farsi sollevare da chi non ha mai impugnato una sedia a rotelle è mettere a rischio la propria incolumità, specie perché istintivamente molti ti sollevano impugnando le ruote e non ragionando che le ruote girano su se stesse - e di dipendenza dal punto di vista psicologico perché a quel punto la logica di fondo è: io ti offro aiuto, sei tu che non lo accetti. Ma un conto è accettare di farsi aiutare a salire un gradino, un conto è accettare di farsi trasportare lungo una stretta rampa di scale per restare in un locale privo di vie di fuga in caso di emergenza. È da incoscienti anche solo pensare di offrire un aiuto del genere. Figuriamoci accettarlo.

Imparare a dire no, sarebbe già un passo avanti nel riconoscimento dell’individuo con disabilità e della sua dignità di persona. Avere un locale che presenta barriere architettoniche è una consapevolezza che i gestori di locali pubblici dovrebbero cominciare ad avere e ammettere.

Nadia Covacci, laureata in Psicologia del Lavoro e specializzata nella Psicologia della Formazione degli Adulti, è un'esperta nei processi di inclusione sociale delle persone con disabilità ed è da sempre impegnata nel condividere il punto di vista di chi la disabilità la vive in prima persona.
Tratto da: http://24emilia.com/