Ciao Luis, scrittore combattente...

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Asti lo aveva conosciuto anni fa e alla città lui aveva offerto un cammeo raccontando in un suo prezioso romanzo la storia di un pezzo di città che ora non c'è più. Disse un giorno, Luis Sepúlveda, «Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia». Quella storia che ora non potrà più raccontarci...


Rosella, la più bella.
Esattamente due anni fa, sotto il sole piemontese di mezzogiorno, sentii che la fame guidava con premura i miei passi in direzione del mercato di Asti, verso una vecchia trattoria che si chiamava semplicemente così: Trattoria del Mercato.
Aprii la porta, entrai e il posto mi parve una delle tante osterie che ho visitato in diversi paesi, ristoranti popolari dove indubbiamente si mangia molto meglio che nei locali dotati di varie forchette, perché si mangia anche con gli occhi e con le orecchie, e in genere il contorno lo fa la gente seduta agli altri tavoli.

Mi si avvicinò una donna sorridente, piccola, dagli occhi vivaci, che subito m'invitò a prendere posto vicino alla finestra affacciata sul mercato e ad assaggiare il suo vino è il migliore di Asti, aggiunse, e poi rimase lì a guardarmi con espressione divertita.
«Ti piace?» mi domandò indicando il mio bicchiere ormai vuoto. Risposi di sì, che era molto buono, fresco, fruttato, e le chiesi il menù per ordinare.
«Mi chiamo Rosella e sono quarant'anni che do da mangiare a camionisti, venditori, commessi viaggiatori, artisti e saltimbanchi. Finora nessuno si è mai lamentato» assicurò.
«Bene» risposi, e la tovaglia a quadretti bianchi e rossi si riempì pian piano degli ortaggi del Piemonte per poi cedere il passo a una prodigiosa pasta, vanto della cucina di Rosella. Amo il sapore e il profumo del basilico. Quella volta amai più che mai la verde orchidea del tavolo mediterraneo. Rimasi una settimana in città e ogni giorno, pranzo e cena, presi posto a un tavolo della Trattoria del Mercato.
Una settimana fa sono tornato ad Asti e la prima cosa che ho fatto è stata andare a salutare Rosella: la trattoria era rimasta uguale, gli stessi tavoli, le stesse tovaglie, lo stesso profumino che arrivava dalla cucina, ma c'era un'atmosfera strana fra i commensali, un'atmosfera a metà fra il dispiacere e la rabbia, fra la nostalgia e l'impotenza.
Mentre bevevo il vino dell'ultima vendemmia, venni a sapere che sul locale pesava una condanna a morte: il comune, di destra, aveva deciso di demolire la casa allegando che non possedeva caratteristiche tali da includerla nell'elenco degli edifici storici, visto che i suoi centocinquant'anni non significano granché in una città con palazzi millenari, e che aveva destinato il terreno alla costruzione di un edificio moderno.

La casa in questione non è bellissima, ma è carina. Soprattutto nelle sere d'estate, quando Rosella mette i tavoli in strada o ne sistema altri sotto gli archi di una vecchia scuderia. Allora si cena a lume di candela in mezzo al profumo degli oleandri e delle verdure che crescono in un orto vicino. Si cena e si canta. Arriva sempre qualcuno con la chitarra e alla seconda canzone la cena in trattoria diventa una festa in famiglia. Ma alla modernità non importa niente di tutto questo.
Il 18 giugno scorso, la Trattoria del Mercato ha celebrato la sua ultima cena. Rosella, vestita a festa, ha invitato tutti i clienti per dare una degna fine allo spumante e alle verdure dell'orto, e ha preparato chili e chili della sua famosa pasta, varie pentole del suo ineguagliabile ragù alle melanzane, ed enormi vassoi con le sue indimenticabili torte tartufate.

Abbiamo mangiato, abbiamo cantato, abbiamo bevuto fino all'alba, finché non si sono uniti alla festa i venditori del mercato, i distributori di giornali, i primi uccelletti del mattino.
Ogni tanto, una donna con un vellutato accento napoletano intonava una canzone il cui ritornello, Rosella, sei e sarai sempre la più bella, era cantato in coro da tutti quanti come un modo per scongiurare il destino, per rendere più sopportabile la sconfitta.

Ora so che non tornerò più a mangiare da Rosella e la Trattoria del Mercato è entrata a far parte del mio inventario delle perdite.

Luis Sepúlveda, Le rose di Atacama