Il nostro isolamento e la libertà di Silvia

di Daniela Grassi.

Due, in qualche caso quasi tre mesi di isolamento, non sono stati facili da vivere per molti di noi e hanno posto difficoltà e domande a tutti. Ovvio, le nostre abitudini sono state stravolte, ci siamo ritrovati con limitazioni che non avevamo mai pensato venissero imposte e, quando è andata bene, con preoccupazioni per la nostra salute e per quella altrui o per il lavoro. Alcuni poi, per la loro personale esperienza o per quella dei loro cari, hanno sperimentato vera e propria sofferenza. Malattia, distacco, lutto o gravi difficoltà economiche, improvvisamente hanno segnato e segneranno le loro vite...

Non è stato facile e non lo sarà e per traversare questo breve e intenso periodo, abbiamo fatto davvero di tutto, c’è chi si è raccontato, chi ha cantato, chi si è impegnato sul proprio lavoro con modalità inusuali, chi ha cucinato e così via. E ci siamo tanto autocelebrati, perché è anche così che, come comunità, ci si sostiene nei momenti difficili. Parliamo naturalmente di chi ha vissuto in maniera meno drammatica la situazione, la maggior parte cioè: dei privilegiati rispetto a coloro che in ogni ruolo questa storia l’hanno vissuta e la vivono in prima persona.

In ogni caso, se pensiamo a queste settimane, ciò che vediamo è una prospettiva repentinamente distorta, come se d’improvviso la superficie della vita in cui ci specchiavamo si fosse deformata, restituendoci un’immagine falsata di ciò che credevamo vero, solito, usuale.
 
Non si è quasi parlato, visto, letto d’altro per tutto questo tempo.
Poi d’un tratto, quando appena i cordoni dell’isolamento iniziavano ad allentarsi e noi ad affacciarci un po’ di più all’esterno, a sentirci più liberi (perché è reclusione, seppure necessaria e responsabile, quella di cui parliamo), ecco che una grande e bella notizia sconvolge, come una ventata d’aria fresca, come un aquilone che improvvisamente solchi il cielo, la nostra esistenza singola e comunitaria: Silvia Romano, ci dicono, finalmente è libera! Silvia torna a casa!

E tutti abbiamo un sussulto di gioia e davvero ci sentiamo più liberi e più leggeri.

Ma la vita continua a sorprenderci e Silvia scende dall’aereo infagottata in un abito enorme, che più che un aquilone ricorda un paracadute sgonfio, un abito che insospettisce e che distoglie dalle sue mani infagottate anch’esse in guanti di tre taglie più grandi, che salutano con la grazia di quelle di un piccolo e poetico clown.
Tutto ciò che indossa è tre taglie più della sua e anche ciò che è accaduto e sta per accadere lo è.
Silvia ci ha traditi, ha tradito il nostro immaginario: si è convertita all’Islam, non è pentita e per riaverla abbiamo pure pagato. Questo è quello che il popolo che per qualche settimana è rimasto recluso tra cucina e tinello, il popolo che è stato gravemente rapito dal virus alle pizzerie e ai caffè, vede e sente guardando la ragazza che traversa l’aeroporto. Non vedono altro, quelli che giustamente si sentono confinati per non poter andare al mare nel fine settimana: l’orrore del rapimento, della terribile incognita, dello stravolgimento senza alcuna sicurezza, dell’isolamento da ogni persona e conforto, da ogni certezza.

Per Silvia e per i suoi famigliari la vita non sarà mai più quella di prima; non lo è più d’altronde fin dal giorno in cui lei è stata rapita e adesso, non bastasse, è il momento dell’ostracismo. Si scatena la politica più becera, non degna di questo nome, e quei social su cui hanno corso in queste settimane ricette, foto di piatti e congratulazioni reciproche, adesso rivelano l’altra natura, quella mannara e tirano pietre: Silvia non doveva trovarsi lì, doveva restare a casa. Anche questa volta, anche questa donna, “se l’è cercata”.

E quel che colpisce è che tante sono proprio le donne che accusano, che lapidano con i loro giudizi. Come mai? Invidia della libertà, che forse ancora manca, perché non basteranno le estetiste e i parrucchieri riconquistati a farcene certe?

Mi ha colpita l’intervento di Silvana De Mari, medico chirurgo e scrittrice, la quale sostiene che chi non ha una specializzazione e un’organizzazione alle spalle non deve andarsi a infilare in paesi e situazioni difficili, creando problemi a se stessa e agli altri.
Sulla cautela non si può non essere d’accordo, è buon senso. Quello che mi colpisce è il livore e la violenza del linguaggio e dell’espressione di questa donna anziana, vicina ai settanta, che ripete con rabbia una definizione: “sciacquine”.

Sciacquine” dice e dice ancora: sempre al femminile, mai al maschile.

Sciacquine” state a casa: d’ora in poi, se vi rapiscono pagate voi e le vostre famiglie, non noi, non toglieteci con quelle vostre cianfrusaglie di sogni, tanti denari che ci servono per opere meritorie.
Pagare un riscatto è sempre una brutta cosa, i soldi si riversano sempre in pessime operazioni, ma non si può mettere a fronte la vita di una persona con quella di altre, malate di leucemia, come fa la De Mari. Non è proprio uno di quei casi in cui due più due fa quattro.

Quindi, quando uno si caccia in un guaio, dobbiamo piantarlo da solo perché ha fatto una sciocchezza? Allora, a ragion di più, anche quelli che strepitano se non fanno il fuoripista e poi finiscono sotto le valanghe che hanno provocato, li lasciamo là. Anzi, se sono donne, facciamo proprio finta di non sapere: fossero state a casa…

 “State a casa”… mi sembra di averla già sentita.
 
E poi, infine, qual è il valore di un sogno? Magari l’idea di Silvia di creare una ludoteca per bambini in un villaggio africano è una benemerita scemenza, non so giudicare; magari si è affidata a una onlus di sconsiderati che non l’ha avvertita, né tutelata, non lo so dire; ma, ripeto, qual è il valore di un sogno?
E se non si sogna e si azzarda, e si vuole un mondo nuovo quando si è ragazzi, quando lo si deve sognare e provare a realizzare?
Forse anche noi, molte e molti di noi, siamo stati rapiti: rapiti a noi stessi e al nostro senso di umanità, di fragilità, di possibilità.

Non so se “andrà tutto bene”. Certo è che fino ad oggi, “non va bene per niente”.

Qualunque sia la nostra opinione, sosteniamo Silvia come persona e come donna, e sosteniamo la sua famiglia, i suoi sogni.
Riscattiamo, la nostra umanità.

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