Crisi e metafore

ImageNote di Gianfranco Miroglio a margine dell’incontro della rivista Culture dell’8 febbraio 2010.
E’ stata una piccola, importante riunione. Spontaneamente “carbonara”. Come al solito del resto, anzi un po’ più del solito per via dell’antro che l’ha ospitata, nel profondo ventre della CGIL, cantine, cunicoli, suggestioni.
Del resto è vecchia storia di come il contenitore possa anche camuffarsi e diventare “contenuto” ...

Scatola di idee, corazza di sentimenti, tana di cuori.
Al centro del “complotto” una riflessione incrociata sulla crisi.
Sindacato, volontariato sociale, urbanistica e paesaggio.
Un confronto saggio e appassionato tra coerenze naturali che la quotidianità costringe a grotteschi, drammatici faccia a faccia; … che il cosiddetto costume - o i tempora di classica memoria - riducono ad antitesi istituzionali e a incoerenza operativa, spingono ed ormeggiano su incoscienti sponde conflittuali.
Nuovi ricchi e nuovi poveri; affari e natura; fama e fame, scorte ed escort.
Eccetera.

Ho ascoltato con attenzione crescente dati e considerazioni, statistiche e previsioni che hanno, a gradi, amplificato l’angoscia - latente all’inizio - tra chi c’era.
Anno horribilis si è detto.  D’accordo tutti.
Quello che è passato, certo, ma anche soprattutto quello che verrà.
A essere sincero, percepibili solo poche e rare rughe di stupore tra i presenti, la totalità dei quali ha smesso da anni di credere alle favole; è per forza o per storia o per esperienza ben vaccinata contro le ipnosi collettive, contro le formule magiche del grande imbonitore, contro gli occhiolini strizzati dal circo mediatico e messianico dei suoi giullari, del suo nano e delle sue  ballerine.

Ma i Relatori in fila e l’espressione del pubblico mi hanno fatto pensare.
Una profusione di metafore ha declinato gli interventi.
E avviluppato, scaldandole, le idee e le reazioni.

Trovo la metafora un posto bellissimo – una specie di radura – in cui circola sempre un respiro per lo meno tiepido che accarezza e tiene vispa la coscienza, inchiodando i problemi reali alla gogna e sullo sfondo patinato di una specie di fumetto intelligente.
Sono immagini e aneddoti dove le parole a commento possono restare mute. Le nuvolette sospese possono restare vuote. Diventano addirittura superflue.
Davvero un di più, dato che bastano le espressioni di chi, al momento, sta raccontando.
Penso al baffo torturato del sindacalista e la sua frequente mano a massaggiare la fronte mentre dice l’ingiustizia di una comunità fatta da una volpe e da tante galline serrate nello stesso recinto, “…chi vince, secondo voi, e chi potrà mai sopravvivere?”; … o all’abbozzo insistito di un sorriso e di una scintilla  sul volto del presidente della Caritas che pure parla di buio, di notte profonda, e poi – solo alla fine - perfino di alba; … o alla rabbia delle mani, i rimpianti e la furia allegra, bianca e azzurra, degli sguardi in giro – tesi in direzioni di tutti -  dell’urbanista che ci mappa le desolazioni possibili di una catena di città in balia di processi senza progetti, di futuri senza passati, di macchine senza un ricordo; … infine il paesaggista, il suo flebile ottimismo grattato cocciutamente fuori da qualche sporadica occasione fortunata. Lui quasi rassegnato ormai – tra noi carbonari – al ruolo dell’estremo consolatore.

E’ un bel posto la metafora e tra un po’ ci torno.

Ma mi resistono due o tre domande che ci frullano in giro (anche l’altra sera è successo, anche nel covo) e intorno alle quali sempre si glissa come sui marciapiedi della nostra città nelle ultime settimane.
Si è proclamato a più voci che la crisi non è crisi per tutti; … paradossalmente - invece e in coro - si è sussurrato che nessuno si salva e si esenta dalle sacche e dalle macchie del malessere.
Una grande e triste povertà dei poveri, certo, ma anche un’enorme e gaudente miseria dei ricchi.

C’è miseria e miseria, evidentemente, ma, alla fine dello scavo, mi è parso ancor più chiaro che la più grave, la più pericolosa, la più – come effetti – globale, sia quella che trasforma l’uomo – la persona - in un esattore senza ritegno, in una maschera di Molière, in un sordo senza neppure una eco lontana di coscienza, in un cieco senza qualche orizzonte di amore su cui appoggiare qualcuno dei suoi sensi attizzati; … in un bandito presuntuoso e aggressivo per vocazione e per scelta, in mercenario e vigliacco e svenduto e tracotante, in un ottuso mercante di sentieri, di campi e di betulle.

In nazista, in cannibale, in antropofago.

In una lastra grigia, spessa e dura, contro cui è inutile bussare da qualunque verso la si rigiri.
Ma se alle bollette insolute dei pensionati ridotti al minimo, alle cambiali dei licenziati monoreddito, agli affitti e ai ricoveri per gli stranieri, … se a questo pacchetto di bisogni tangibili può ben tentare soluzioni il brulichio bello e gentile dell’accoglienza e della solidarietà, chi può preoccuparsi davvero dei “poveri ricchi”? Chi lo sa fare?
Lo è un’emergenza anche quella oppure no? Non è poi da lì che suppura quasi tutto il resto?
E’ o non è una miseria che in fretta diventa malattia?  Perversa e inguaribile visto che si ingegna da sola a distruggersi i soli anticorpi efficaci e non effimeri  (storia, memoria, ricerca, cultura, e - per conseguenza - sensibilità, rispetto, relazioni); … anche e soprattutto infettiva, pandemica per come sa calarsi attraverso le classi, i ceti, gli ambienti, le nazioni e gli Stati.
Chi pensiamo possa occuparsene? E come? E quando?
Prima: con la ragione e con ciò che resta – profilo scheletrico – di un segno di pace sociale; oppure poi, soltanto con le sberle dell’emozione e l’ineluttabilità degli istinti? Carota o bastone? Stimolo o rassegnazione? Incontro o scontro? Dialogo o Rivoluzione?
Scenari tutti possibili subito dietro gli angoli di un “quattro cantoni” che non diverte e non distrae davvero più.
Anzi, spaventa già, non a caso un buon tratto del dibattito ha utilizzato l’argomento “Paura”.

Altri punti in sospeso mi vengono dalla ”appendice sostanziale” che lo schema della riunione ha offerto alle tematiche ambientali.
So di rivolgermi a un gruppo ampio di persone che la natura non ce l’ha soltanto “a cuore”, ce l’ha “nel cuore”. Per questo mi confesso.
Eppure ancora una volta, perfino nella catacomba, perfino parlando di  recessione, all’ambiente si è riservato uno spazio carico di denunce e di preoccupazione, gonfio di indignazioni, ricco di emozioni.
Come è giusto che sia.

Ancora una volta, legittimamente per carità, è prevalsa nonostante gli sforzi una lettura troppo difensiva in cui la natura è sembrata più un oggetto - aspetto e testimonianza - della crisi in atto che il soggetto di una rinascita potenziale.
Più un atavico malato da accudire che uno sbocco e un conforto per una società malata.
Un “tema” ancora teorico, appena sfiorato da speranze, appena lusingato da promesse, appena appena indirizzato verso un futuro che non sia solo una generica ansia di proteggere, di salvare, di arginare l’assedio e le aggressioni.
E’ un tarlo minuto – freudianamente intarsiato da sogni e da incubi – di fatalismo e di depressione che ci accompagna da troppo e che dovremmo, invece, scaricarci dall’anima quanto prima.

Allora perché, quando si affrontano i temi dello sviluppo locale, automaticamente quasi si cerca di sollecitare le amministrazioni e i potenti  affinché “garantiscano aree industriali ben attrezzate per consentire l’atterraggio di nuove aziende” … oppure si immaginano saggiamente e si indicano i benefici possibili della nuova “industria verde”, della green economy di deriva al-goriana e il suo indotto?  Capannoni, fabbriche, ben vestiti, mal vestiti. E perché, invece, non si tenta  quasi mai di spingere comuni, province, sindaci  e pro loco, notabili e semplici cittadini a guardarsi intorno per farsi stupire dalle enormi potenzialità - anche economiche - che il territorio, così com’è, àmbito e laboratorio di diritti e di doveri, di libertà e di norme, di azioni compatibili e di poesia, saprebbe offrire?

Altre realtà – la Puglia ad esempio - hanno già accettato la scommessa e la stanno concretamente vincendo.
Adesso esagero: quando ci capiterà di veder fondata la FLSA,  Federazione lavoratori della sostenibilità e dell’ambiente; oppure quando avremo la fortuna e la soddisfazione di essere ospitati nei locali della CGIL Ambiente … non più una porzione contrattuale del variegato mondo dei dipendenti pubblici, ma un  punto di incontro per studi, analisi, conoscenze e strategie anche o soprattutto occupazionali destinate a valorizzare, fare vivere e crescere la nostra terra – bene comune,  coltivandone prodotti e qualità, estri e nostalgie?
Suggerimento o provocazione. Indirizzati, è ovvio, non solo al sindacato; indirizzati a chi abbia voglia di rifletterci operativamente su. .

Di nuovo metafore. Giusto per finire in gloria.
Una, molto bella, mi è stata imprestata tempo fa da Francesco Tonucci, l’inventore delle “Citta dei bambini”.
Dice, in realtà, di metafore capovolte: quella delle città, un tempo roccaforte di sicurezza, di difesa, di tranquillità, di benessere; e quella del bosco, invece, spazio di incertezza, di confusione, di paura, di orchi e di masche. 
Dice di pensarci un attimo;  basta un attimo per capire che oggi non è più  così; affatto.
Che oggi è - o potrebbe essere - l’esatto contrario.
Mi pare una buona indicazione.
C’è una voglia di fuga e un desiderio di ritorno. Ancestrali, speculari ma entrambi ancora gracili.
Fuga da una banalità e una ritualità che omologa e poi tradisce; ritorno verso un’essenzialità, o verso una possibilità che identifica, che conforta e aggrega.
C’è naturalmente da lavorare e tanto.

Venite - dice - c’è una strada nel bosco.
Il suggeritore questa volta è Alberto Rabagliati.
Portateci i poveri poveri e spingeteci i poveri ricchi.
Per tutti la quasi certezza di incontrare qualche piccolo tesoro.

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