Esplode la rivolta buddista in Tibet

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di Raimondo Bultrini, su segnalazione di Samuele Giorno (Scuola Popolare di Pace dell’Asti Social Forum).
ImageDopo i monaci buddisti birmani è la volta dei loro compagni di fede del Tibet. Per la prima volta, a distanza di dieci anni dalle repressioni cinesi dell'88 e '89, l'esercito in amaranto dei grandi monasteri di Lhasa è sceso in strada in occasione del 49esimo anniversario della fallita rivolta contro l'occupazione delle truppe di Pechino. Tra i 3 e i 400 religiosi, usciti da due dei più grandi complessi di studio e preghiera attorno alla capitale tibetana, hanno sfilato in corteo chiedendo il rilascio di un gruppo di religiosi e laici arrestati a ottobre con l'accusa di aver inneggiato alla consegna della medaglia d'oro del Congresso americano al Dalai Lama, e per chiedere il ritorno in Tibet del loro leader spirituale esule nella città di Dharamsala, in India.

In una serie di contraddittorie dichiarazioni, diverse autorità cinesi hanno prima smentito poi ammesso di aver effettuato degli arresti. Secondo un portavoce del ministero degli Esteri "qualche monaco ignorante di Lhasa, sostenuto da un manipolo di persone, ha commesso delle illegalità con l'intenzione di sfidare la stabilità sociale, e sarà punite secondo la legge". Per minimizzare ulteriormente, il capo del governo tibetano Champa Phuntsok ha detto che "non è davvero successo niente, ogni cosa è a posto".

Ma Radio Free Asia cita fonti locali che parlano di oltre 70 arresti, alcuni dei quali effettuati in pieno centro di Lhasa, nell'affollata area del Barkhor dove pellegrini da tutto il Tibet giungono prostrandosi di fronte alle enormi immagini dei Buddha custodite nel tempio Jockang. Tra questi anche un lama "reincarnato" e diversi altri cittadini dei quali i siti web del dissenso hanno diffuso nomi e cognomi.

Notizie di proteste sono giunte anche dalla remota regione dell'Amdo, dove numerosi cittadini avrebbero boicottato una funzione ufficiale nel distretto di Mangra e gridato alla Lunga vita del Dalai lama, originario di queste montagne.

Il vento della rivolta, che secondo i tibetani esuli di Dharamsala soffierà fino ai Giochi Olimpici, è partito lunedì dal monastero di Drepung, la più grande delle istituzioni religiose a pochi chilometri dalla capitale del Tibet. Costruito come una cittadella con centinaia di edifici, un tempo ospitava oltre settemila monaci. Oggi sono meno della metà e i più ribelli vengono costretti a seguire corsi di "rieducazione" politica. Oltre trecento di loro hanno tentato di marciare verso il leggendario Palazzo Potala, ex dimora del Dio Re, ma sono stati bloccati a arrestati in massa. In misura minore anche i monaci di Sera sono riusciti a uscire dal perimetro del monastero, e alcuni hanno raggiunto i manifestanti del Barkhor, prima di venire fermati e - alcuni di loro - arrestati.

Secondo i siti del dissenso, da lunedì pomeriggio tutti i più grandi centri religiosi sono stati circondati dalla polizia, nel timore che questi inediti e rischiosi focolai di ribellione possano prendere piede su tutto l'altipiano occupato 60 anni fa dalle truppe dell'esercito popolare. In realtà la prospettiva delle Olimpiadi aperte ai mass media di tutto il mondo sembrano aver offerto ai tibetani dentro e fuori dal paese un'occasione unica, come non si presentava da anni.

Oltre alle proteste di Katmandu - durante le quali oltre 150 monaci e civili sono stati feriti dalla polizia - continua nonostante il divieto delle forze dell'ordine la marcia di un centinaio di tibetani esuli partiti lunedì da Dharamsala con l'intenzione di attraversare il confine del Tibet cinese alla vigilia dei Giochi in agosto.