Vota paura! Vota paura! Vota paura!


di Pietro Raitano, direttore di Altreconomia.

L’aspetto più frustrante della democrazia moderna occidentale sono le campagne elettorali. Il periodo delle promesse, dei proclami, delle minacce, dell’ipocrisia, delle fazioni che si combattono senza particolare stile, regole, rispetto reciproco. Le campagne elettorali hanno molteplici tratti distintivi. Uno di questi è la necessità di rivolgersi, con tutti i mezzi, a quella parte sempre minore di popolazione che va ancora a votare, quella che ha resistito, nonostante tutto, alla tentazione antidemocratica dell’astensione. Dentro quella parte c’è un po’ di tutto: convinzione, protesta, abitudine, senso di responsabilità, disillusione. “Con tutti i mezzi” vuol dire oggi soprattutto televisioni e social media, con il portato che questa deriva ha definitivamente assunto in termini di linguaggio, superficialità, velocità ed evanescenza ...
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Un altro tratto caratteristico delle stagioni pre urne è la scelta di pochi temi sui quali concentrarsi, affinché siano idonei a convincere gli elettori attraverso i mezzi a disposizione. Mascherando la scelta come “necessaria” per parlare “a tutti”, si abdica alla complessità a favore di slogan e programmi che sembrano liste della spesa. È accaduto negli Stati Uniti e in Francia, accadrà fra poco in Germania, in Gran Bretagna e, fra non molto, anche in Italia -che in realtà è entrata in una campagna elettorale perenne ormai dal periodo precedente al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016-.

Nelle democrazie moderne occidentali, dato il contesto storico, il tutto è facilmente riconducibile a una sola parola: paura. La paura che provano le persone -e quindi gli elettori- va rispettata. Le cose sono ben cambiate nel corso degli ultimi 20 anni, e i cambiamenti, quando non li si comprende, mettono timore. Ma se rispettare la paura è giusto, alimentarla, cavalcarla, sfruttarla è indegno. Perché quando il perno della politica è la paura dei cittadini, la risposta è innanzitutto ridimensionare i problemi reali del mondo. Ovvero i cambiamenti climatici, lo strapotere delle multinazionali che eludono le tasse, l’incredibile iniquità nella distribuzione planetaria dei redditi, l’esaurimento delle risorse, l’impunità della finanza predatoria, dei corrotti e dei corruttori, la criminalità organizzata internazionale. Troppo difficili da capire, troppo difficili da spiegare. Troppo potere da mettere in discussione. Poca volontà di contrastarlo.

Il passaggio successivo consiste nella ricerca di un capro espiatorio. E il capro espiatorio delle democrazie moderne occidentali sono i miserabili: migranti, disoccupati, mendicanti. E ovviamente chi li aiuta. Facili da attaccare, praticamente indifesi. Vittoria certa, agevole, pulita. Consenso a buon prezzo. Non tutti ci cascano ovviamente. Al Salone del Libro di Torino, a maggio, nel silenzio compiacente della platea (“la cultura è l’oppio dei popoli” direbbe Goffredo Fofi) tre ragazzi hanno contestato il ministro dell’Interno Marco Minniti per i decreti di sedicente sicurezza che portano il suo nome e quello del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Dietro il paravento di tanta retorica, l’operato del Governo punta a un modello ben lontano dall’accoglienza diffusa che ci si era prefissi, fatto anche di accordi con Paesi tutt’altro che democratici per il “contenimento” dei flussi migratori. La protesta è stata facilmente repressa, ma ci sono voluti tre ragazzi coraggiosi per dire che il re è nudo.

La paura è la stessa arma del terrorismo internazionale, che non colpisce il potere, non colpisce l’ingiustizia: colpisce gli indifesi, le vittime, chi non ha alcun potere, come quei ragazzini -e le loro famiglie- a Manchester il 22 maggio. Ragazzini per i quali la società multiculturale è la normalità. La filosofa Donatella Di Cesare parlerebbe di “fobocrazia”: “Il terrore incrina l’etica, sfida la politica, muta la forma di vita. Scaturito dalla modernità, il terrore è la forza violenta che si oppone alla globalizzazione”.

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