Perché diciamo femminicidio e non semplicemente omicidio?

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A cura del Coordinamento Donne Cgil Asti.

Ci sono state e ancora ci sono resistenze all’introduzione di questo termine, quasi fosse immotivato o costituisse una forzata distinzione tra delitto e delitto in base al sesso della vittima.
Se ci riferiamo a una situazione neutra, ad esempio una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, si può certo parlare di omicidio. Con femminicidio intendiamo una situazione non neutra, un delitto che nasce all'interno del rapporto tra un uomo e una donna e all’interno di una visione culturale che vede il femminile disprezzato e disprezzabile ...

Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte.

Riportiamo un parere autorevole, quanto scrive il Professore emerito di linguistica italiana e Accademico della Crusca Rosario Coluccia, in un suo articolo del 2013 pubblicato sul "Nuovo Quotidiano di Puglia":

Di mestiere faccio il linguista. E così spesso ricevo telefonate o lettere da amici, conoscenti, studenti, che chiedono il mio parere su espressioni e parole che sentono in televisione o leggono sui giornali...
Un collega mi ha chiesto un parere su una parola che oggi si usa moltissimo. Si tratta di femminicidio che indica l’assassinio di una donna, spesso perpetrato dal marito, dal fidanzato, dal compagno, a volte da persona sconosciuta.
- Ma perché inventare una nuova parola - mi chiede il collega - non basterebbe omicidio?...
La risposta, come spesso capita, ce la danno i vocabolari. La voce ”femmina” viene spiegata cosi: “essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo”. Badate all’aggettivo spregiativo, la soluzione è lì. Il femminicidio indica l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l'amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.
Io non so se questo atteggiamento sia generato da alcune abitudini della società in cui viviamo: una società che, insieme, esibisce sfacciatamente il corpo femminile visto come una merce e preferisce ascoltare chi urla e offende invece di riflettere sulla ragionevolezza delle argomentazioni.
Chi mi conosce sa che non sono un parruccone pudibondo; mi ripugnano l’arbitrio, la mancanza di rispetto, l’offesa.

Torniamo alla lingua. Se una società genera forme mostruose di sopraffazione e di violenza, bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. E quindi è giusto usare “femminicidio”, per denunziare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola “femminicidio”; il generico “omicidio” risulterebbe troppo blando”.