La Corte Europea per i Diritti Umani ha condannato l'Italia per tortura

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di Luisa Rasero.

A inizio ottobre la Corte Europea ha sanzionato l’Italia per le gravissime violenze perpetrate al G8 di Genova nel 2001. Fatti ben noti. Ma anche per gli assai meno noti fatti accaduti nel carcere di Asti, sui quali si vuole qui richiamare l'attenzione ...

Nel 2004, all'interno dell'istituto penitenziario astigiano, due detenuti vennero sottoposti a gravi violenze. Gli atti processuali documentano privazioni del cibo e dell'abbigliamento, celle senza vetri alle finestre in pieno inverno. Soprattutto, percosse. Percosse sistematiche, calci e pugni, teste schiacciate dagli scarponi d’ordinanza. Il tutto perpetrato da gruppi di agenti, definiti nel gergo carcerario "la squadretta".

Già l'esistenza di un simile gergo testimonierebbe di una consuetudine e non di un fatto isolato: impressione convalidata dalla lettura degli atti processuali. Per contro, dalla sentenza emerge una grande prudenza da parte dei magistrati giudicanti, ben consapevoli di dover vagliare con molta cautela le affermazioni dei detenuti: quasi sempre persone con vissuti difficili, spesso con percorsi di tossicodipendenza, talora anche con gravi problemi psichici. I riscontri alle loro denunce vengono pertanto sempre  accuratamente cercati e, nel nostro caso, trovati.

E' dunque  legittima la supposizione che non si trattasse di casi isolati e che i denuncianti siano stati solo due (di cui uno nel frattempo deceduto in carcere) semplicemente perché gli altri avevano paura. Nella documentazione processuale si dà conto, ad esempio, del “difficile rapporto dialettico dei vari detenuti con il Pm, visto come un loro accusatore e non come un soggetto deputato a far emergere una verità a loro favorevole”.

Questo punto merita di essere evidenziato: si trattava del Pm che indagava sulle eventuali violenze commesse conto i detenuti, eppure i detenuti medesimi lo temevano in quanto rappresentante dell'autorità. Forse perché l'autorità per loro aveva avuto troppo spesso il volto della vessazione e del sopruso?

Ecco dalla viva voce dei protagonisti: “ (…) Vi dico una cosa. Io oggi sto venendo qua, no? A dire questo qua, perché la verità è che  non volevo dire niente, proprio completamente, perché io non è che poi mi posso mettere contro di loro. Io già sono quasi dieci anni che sono in carcere. Non ho ammazzato nessuno e ce ne ho altri tredici da fare. Vai a metterti contro queste persone qua, andate a mettervi voi contro queste persone qua. Io ancora ci devo vivere altri tredici anni. Quindi fate voi. Voi a me oggi qua mi avete condannato per la seconda volta ... perché adesso ne pagherò io le conseguenze ...”.

In altra dichiarazione un detenuto racconta di essere stato ricoverato al Pronto Soccorso (circostanza verificata) ove gli venivano riscontrate due costole sinistre incrinate e di essere tornato in carcere e “di aver ricevuto i complimenti da (un agente) il quale gli diceva ‘bravo ti sei comportato da uomo’ perché ai medici aveva detto di essere scivolato dalle scale”.
Scivolare dalle scale, sbattere in una porta: espressioni che evocano quanto dicono le donne vittime di violenza domestica ...

A Genova Bolzaneto, l'altra vicenda che è costata all'Italia la condanna per tortura: lì molti manifestanti che subirono ignobili trattamenti trovarono il coraggio di denunciare. Dicono le cronache dell'epoca che funzionari e agenti di polizia (e il forsennato medico del carcere) ne furono completamente spiazzati. “Ma come? Non si fa, non sta nelle regole del gioco, non è un comportamento ‘da uomo’ “.  
Evidentemente non avevano afferrato bene che quella  volta non si trattava della loro normale "clientela", persone con codici comportamentali violenti, abituate a darne e a prenderne. No, qui c'erano normali cittadini, convinti di vivere in un paese democratico e non disposti a subire abusi degni di una dittatura.

I manifestanti finiti a Bolzaneto non meritavano il carcere ed è terribile che ci siano passati, ma la domanda giusta è: chi finisce in carcere perché se lo merita, per ciò stesso può essere sottoposto impunemente a violenze ed arbitri? Il carcere è una zona opaca dove vengono sospese le garanzie democratiche? Una discarica sociale? Un posto di cui "buttare via la chiave" e di cui la società civile che sta all’esterno non si deve più interessare?

Parrebbe di sì.

Ad esempio, stando a quanto affermato da “Antigone” (Associazione per i diritti e le garanzie nell'azione penale) in un suo congresso nazionale tenutosi proprio ad Asti: i detenuti mettono in conto le violenze, magari se possono le restituiscono, l'azione di denuncia scatta solo quando si esagera. E nel carcere di Asti, evidentemente, si è esagerato.

O stando ai commenti postati sui social media in seguito alla condanna dell'Italia, che fanno rabbrividire: ma chi scrive certe idiozie è proprio sicuro di non finirci mai, in galera?
Aggiungiamo le difficoltà di pubblicazione sulla stampa mainstream di tutti gli interventi di denuncia e per l’umanizzazione della pena, che si tratti di articoli, comunicati, soggetti teatrali e così via.

Tuttavia, esistono anche segnali in controtendenza.
Da qualche mese l'Italia ha introdotto nel codice penale il reato di tortura. Si tratta di un testo di legge non troppo soddisfacente, ma la parola tortura è finalmente nominata. E' un inizio.
E non mancano in Italia esempi di carceri che funzionano bene. Anche nella stessa Asti dove, cambiata la direzione, sembra si sia voltato decisamente pagina rispetto al suddetto oscuro passato. E tantissimi operatori svolgono un lavoro egregio.

In ogni caso la sentenza europea peserà, dando slancio a chi pensa che le persone (persone!) detenute siano affidate all'autorità pubblica per pagare il loro debito verso la società e, sperabilmente, essere restituite al consorzio civile come individui migliori. Non certo per essere torturate ed uscire ancora più incattivite e pericolose.

Siamo un Paese dotato di una Costituzione bellissima e istituzioni democratiche figlie della Resistenza e della lotta contro i torturatori nazifascisti. Ci meritiamo di meglio, compreso il coraggio di guardare fino in fondo nelle nostre zone buie.