Contributo alla discussione sull'urbanistica di Asti

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A  cura di Carlo Sottile, Coordinamento Asti Est.

“Siamo alla canna del gas”. Il giudizio lapidario sul mercato immobiliare cittadino, e implicitamente sui suoi più recenti protagonisti, lo abbiamo colto sulla bocca di un costruttore, nel corso dell'assemblea pubblica di martedì 20 febbraio. Qualche giorno prima, discutendo in altra sede di diritto all’abitare, emergenza abitativa e sgomberi di edifici “occupati”, abbiamo colto sulla bocca del Prefetto un giudizio altrettanto lapidario, che va singolarmente a braccetto con il primo: “il partito del mattone non esiste più” ...

Entrambi segnalano la fine di un ciclo. Potremmo dire, semplificando, per il partito del mattone sono finite le vacche grasse.
Detto per inciso, qualcuno ci rimprovera l’uso della locuzione “partito del mattone” perché, ci avvertono, demonizza una categoria, i costruttori, insopprimibile in qualsiasi ipotesi di ripresa economica e sociale del Paese. Giusto, infatti non vogliamo sopprimere nessuno, ma appuntare l’attenzione sui ruoli passati e presenti, di una delle più potenti aggregazioni politico/sociali del Paese, vale a dire, costruttori, proprietari fondiari, corporazioni professionali e banche.
D’altra parte la locuzione non è nostra, l’ha usata recentemente Legambiente per argomentare il suo giudizio sulla legge urbanistica della regione Emilia Romagna, e l’associazione ambientalista l’ha mutuata da una sterminata letteratura di genere fiorita attorno alla necessità, mai soddisfatta, di dotare il paese di una legge urbanistica nazionale che aggiornasse quella del 1942, l’unica tuttora in vigore.

Per tornare alla fine del ciclo di cui si è detto, la cui durata può variare in ragione di una più o meno accurata analisi storica, ciò che troviamo è, semplificando, un disastro sociale ed ambientale.
Vale a dire, un mare di edifici residenziali, commerciali e industriali, abbandonati sul territorio, che in città diffondono nel loro d’intorno abbandono e degrado e in campagna rendono anonimo e irriconoscibile il paesaggio; vale a dire, un uso mercantile e predatorio del territorio che accompagna, dall’anno della crisi dei subprime, il crescere impetuoso del bisogno abitativo insoddisfatto, misurato qualche settimana fa da Federcasa e sindacati degli inquilini tutti, con la richiesta di un milione di case popolari.

Facciamo osservare che questo gravissimo problema sociale, a cui il movimento di lotta per la casa ha dato una risposta, su tutto il territorio nazionale, con centinaia di “occupazioni” (ad Asti sono state 4 dal 2010 in avanti), viene derubricato ad “emergenza”, dal governo e da tutti gli enti pubblici a quello subordinati; Comune di Asti compreso.

Separare quel problema sociale dalle sue cause sistemiche, la precarietà dei redditi, un mercato immobiliare speculativo e la fine dell'edilizia sovvenzionata, serve per far credere nella possibilità di condurlo a soluzione, con politiche filantropiche o di “riduzione del danno”, e con azioni di “decoro urbano” e di ordine pubblico (leggasi decreto Minniti).

C’è dunque un intreccio tra uso predatorio del territorio e bisogno abitativo insoddisfatto, che deve essere tenuto presente. Diversamente il riuso degli edifici dismessi e il “Piano regolatore dell’esistente”, rischiano di diventare l’occasione di una retorica, che dal 2004 ha avuto fin troppe voci. Persino i giovani architetti della relativa corporazione astigiana e gli “occupanti” della ex-Mutua hanno dato il loro contributo, all’interno di un AstiFest, con un progetto di auto-recupero dell’edificio (il carteggio è agli atti).

C’erano anche loro, gli architetti, il 20 febbraio, e li abbiamo riascoltati con interesse qualche giorno fa, al Museo Paleontologico, insieme ad amministratori pubblici, sindaco compreso, e curatori a vario titolo delle eccellenze storiche, artistiche e naturali del paesaggio rurale e cittadino.
Di riuso e rigenerazione c’è pieno nei loro progetti, e chi vuole può avvertire nel loro linguaggio la lezione di Cervellati, l’architetto e urbanista che con il suo piano di risanamento del centro storico di Bologna, ha meritato la segnalazione del Consiglio di Europa; oppure può avvertire, a scelta, la lezione di Astengo, l’architetto ed urbanista piemontese che nel '77 (l’anno del big bang, dice Gianfranco Manfredi) ha dato la paternità alla legge regionale n° 56 “Tutela ed uso del suolo”.

Ma a quel tempo l’urbanistica era quella delle “visioni” e del diritto alla città, del diritto di superficie in mano alle amministrazioni pubbliche, dei Piani Regolatori prescrittivi. Non a caso nel '77 viene approvata la legge 10 Bucalossi, quella che separa il diritto ad edificare dal diritto di proprietà, introduce il convenzionamento della attività edilizia e i programmi di attuazione dei piani urbanistici.

Un conto però è l’eco delle parole e un altro conto è la presente realtà.
In entrambi gli appuntamenti ricordati, del 20 e del museo Paleontologico, gli stessi architetti non hanno fatto neppure un cenno alla influenza che hanno avuto e continuano ad avere, nelle configurazioni urbane, le diseguaglianze, le differenze di classe e i conflitti sociali. I circuiti del capitale finanziario, della “moderna” commercializzazione, del turismo d'élite, che sono quelli più visibili, adesso anche con le loro rovine, dentro la conformazione di centro e periferia, sfumano sui modi di vivere la città di ricchi e poveri.
Il daspo urbano di Minniti si tiene lontano da questa incerta visione, assume il centro urbano come l’habitat dei ricchi, da cui tenere lontano i poveri, i non conformi, gli esclusi dal mercato.

Affrontando questi problemi non possiamo essere meno lucidi del ministro degli Interni Minniti. Sono problemi che, data la presente situazione, nonché la nostra arretratezza culturale e politica, meriterebbero più gruppi di lavoro, non una retorica. Perché l’urbanistica che è venuta in seguito, dopo i Cervellati e gli Astengo, quasi di soppiatto, legge dopo legge, variante dopo variante, compromesso dopo compromesso, fino alla dimenticanza della nostra legge fondamentale, è la cosiddetta “urbanistica contrattata”, quella che abbandonando ogni idea di diritto alla città, di bene pubblico e comune, di proprietà collettiva, di funzione sociale della proprietà privata, quella che ha promosso il “partito del mattone” a protagonista di quasi tutte le azioni di trasformazione del territorio. Possiamo ben dire, che da quel momento, l’interesse pubblico e i valori civici hanno lasciato il passo all’interesse privato e ai valori immobiliari.

Quel momento non è ancora finito. Nonostante lo sconcerto dei costruttori e di tutta la loro consorteria. La fine di un ciclo delle loro attività non significa la fine del loro potere, del loro modello, della loro legislazione. Cittadini, associazioni, movimenti, unendo pratiche sociali e riflessione politica, hanno già acquisito questa consapevolezza. Come abbiamo già ricordato in altre occasioni, la “costituente itinerante dei beni comuni”, alcune amministrazioni e tra queste Napoli la più importante e, in ultimo, il Forum Salviamo il Paesaggio, stanno contribuendo a “rovesciare il tavolo” della “urbanistica contrattata”.
Una riflessione ormai matura è raccolta nei documenti preparatori e nel preambolo della legge di iniziativa popolare per arrestare il consumo di suolo.

Dobbiamo fare di quei testi materia di approfondimento.
Perché se non rovesciamo il tavolo, il mercato e quello immobiliare in particolare, continuerà ad orientarsi nello stesso modo di sempre. Lasciato libero, come negli ultimi trent’anni, agirà con i suoi spiriti più animali, si conformerà alle disuguaglianze, comporrà nuovi confini tra ricchi e poveri, confini che in alcune metropoli del pianeta Terra sono già armati.

A ben vedere, l’orientamento del mercato è già adesso quello, e il giudizio “Se non riparte l’edilizia non riparte l’economia”, anche questo raccolto durante l’assemblea del 20, lo conferma.
I segni inquietanti di questo futuro ci sono già, anche in questa città. Il carcere di via Testa, la torre dell’acqua, certi recuperi nel centro storico e in ultimo il riuso, come casa di riposo privata, della ex-Mutua di via Orfanotrofio.

Si riusa e rigenera per i ceti medio/alti.

Non è un buon inizio.