La “nostra” terra e la rivoluzione della logistica

di Lele Viola.

Mezzo secolo fa c’erano solo i negozietti di paese, quelli in cui andavamo a fare la spesa da bambini, tenendo in mano le monetine e ripetendo sottovoce la lista degli acquisti, per non dimenticare qualcosa e dover tornare a far la coda. Droghieri, salumieri, macellai, ferramenta, colorifici, granatìn, rivendite di casalinghi, biancheria e vestiti riempivano i centri storici di paesi e città, assieme alle tante piccole botteghe di artigiani: il ciclista, il meccanico, il falegname, il sarto, il fabbro. Il negozio era un punto di incontro in cui si scambiavano saluti e parole, ci si teneva aggiornati sulle notizie buone e cattive e l’insieme degli esercizi commerciali manteneva vivo il centro cittadino...

Ora le serrande sono spesso abbassate, gli artigiani sono spariti, in molti centri non c’è più vita, al massimo è rimasta la fastidiosa movida. Commercio e lavoro artigianale si sono trasferiti in periferia in grigi e anonimi capannoni. Sono arrivati i supermercati, la grande distribuzione ha sostituito i mille piccoli esercenti. Le auto hanno sostituito i piedi, i carrelli inox le borse della spesa, i bip dei lettori ottici e dei registratori di cassa hanno preso il posto delle parole scambiate. L’Italia dei centri storici vivi e vitali e delle mille borgate si è trasformata in una periferia informe, lo spostamento del baricentro commerciale e artigianale ha ridisegnato i nostri paesi e le nostre vite.

Ma tutto questo fa già parte del passato, adesso stiamo entrando di gran carriera nell’epoca della consegna a domicilio. Non si va neppure più al supermercato, basta un computer o un telefonino e arriva tutto a casa. Internet, Amazon, 3G, 4G, 5G, Paypal, fibra ottica, corrieri, tastiere virtuali e carte di credito prepagate. Tutto a portata di dita, di occhi e di voglia, quasi senza attesa e a prezzi concorrenziali. La consegna a domicilio non è un’invenzione di Bezos, il creatore di Amazon; c’è sempre stata, ma era lenta e costosa, un male necessario o un lusso da riservare ai pochi acquisti per cui non c’era alternativa. Quasi sempre era il cliente che andava al negozio o al grande magazzino a comprare la merce. Ora è invece la merce che va dal cliente, in una ribaltamento di prospettive che rischia di incidere fortemente su molti aspetti della nostra quotidianità, trasformando anche le nostre giornate e le nostre relazioni. E imprigionandoci sempre più nelle nostre case, con l’orizzonte e i contatti filtrati da piccoli schermi luminosi.

Anche questa seconda rivoluzione, infatti, cambierà profondamente le nostre vite, i nostri caratteri, le nostre abitudini. Senza troppo accorgersene, ci troveremo diversi. Ma saranno diverse anche le nostre città e il nostro territorio, come è già capitato per la prima rivoluzione, quella dei supermercati, della grande distribuzione, dei capannoni e delle periferie. Come era successo allora, la gradualità del cambiamento rende difficile essere consapevoli dell’importanza della trasformazione e si finisce di rendersi conto di quel che succede solo a cose fatte, quando ormai il latte è versato ed è troppo tardi per rimediare.
Rendersi conto di quel che ci sta capitando, della corrente in cui tutti nuotiamo e che ci sta trasportando, dei processi storici ed economici in cui siamo immersi, non è cosa facile. Ci manca la consapevolezza della direzione e velocità del movimento, un po’ come capita nel vagone di un treno in corsa o nella cabina di un aereo in volo.

Chiunque abbia una certa età può fare una prova su se stesso, chiedendosi cosa aveva capito davvero, mentre li stava vivendo, dei momenti storici appena passati: gli anni settanta, ottanta, il terrorismo, le stragi, l’inflazione, i periodi di boom e quelli delle crisi e delle “congiunture”, la crescita e la morte dei partiti, i rossi, i neri e i bianchi. Tutte cose che, viste a posteriori, lasciano intravedere logiche, moventi e cause, ma di cui, sul momento, io avevo capito davvero poco.

Non ho usato il plurale per non coinvolgere col noi il resto del mondo nella mia ignoranza, ma resto convinto che capire quel che sta succedendo “mentre” succede sia cosa davvero difficile. Una ragione in più per fermarsi a riflettere su questioni vitali del nostro oggi e su questi cambiamenti impercettibili che trasformeranno profondamente la nostra vita. La “scienza” che sta dietro a questa seconda rivoluzione commerciale si chiama logistica. Un sostantivo che nasce in ambito militare, per l’approvvigionamento di eserciti e la gestione della complessa macchina operativa bellica ed è passato poi ad indicare la difficile organizzazione che ci permette di avere ogni giorno il cibo in tavola, le merci nei punti vendita e poi nelle nostre case.

Come ogni parola, anche questo nuovo termine contiene all’interno valenze positive e ricadute negative. Una buona organizzazione di tutta la catena che lega il produttore al consumatore finale fa risparmiare soldi e riduce i danni ambientali. Rovescio della medaglia sono le infrastrutture, cioè la viabilità, i magazzini, gli enormi parcheggi, le grandi aree necessarie per questa nuova rivoluzione del commercio che punta a servire il cliente a domicilio invertendo le dinamiche degli spostamenti. Una trasformazione che richiede grandi spazi e quindi un’ulteriore cementificazione del territorio, attuata da multinazionali che hanno un immenso potere di spesa e quindi forti capacità di “convinzione” nei confronti di politici e cittadini. E crea nuove forme di sfruttamento e nuove categorie di lavoratori, diversi dai tradizionali operai e impiegati: più isolati, divisi e manipolabili.

Purtroppo, questo non è un lontano futuro, una previsione avventata su un domani che magari non ci toccherà da vicino: è già realtà dell’oggi, con i grandi progetti di Amazon e Conad nel cuneese e nel fossanese e con il proliferare di infrastrutture legate a trasporti, immagazzinamento e consegne. Il primo passo per non subire passivamente questi cambiamenti epocali è averne consapevolezza, cercare di rendersi conto di quel che sta succedendo “mentre” succede, e non solo dopo, quando sarà troppo tardi.

Poi sarà necessario far sentire la nostra voce di cittadini consapevoli a chi abbiamo delegato a rappresentarci. In una democrazia partecipativa non possiamo rinunciare ad esprimere le nostre idee su un tema così importante e vitale come l’utilizzo della “nostra” terra.

Già pubblicato su "La Guida" del 21.10.2021

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