La consapevolezza di abitare una Bioregione

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di Giuseppe Moretti, co-fondatore della Rete Bioregionale italiana.
ImageL’idea bioregionale non è né una nuova ideologia né un nuovo partito politico e neppure una nuova forma di religione, ma una pratica di vita, alla base della quale sta la consapevolezza di essere e agire come parte della più ampia comunità del luogo in cui si vive. E comunità in senso bioregionale significa: alberi, animali, corsi d’acqua, montagne, erbe, insetti, rocce e mari, oltre che esseri umani. Non è difficile pensare in termini bioregionali, basta per un attimo lasciar da parte l’esclusività e l’arroganza che caratterizza gran parte della società moderna ed iniziare a pensare in termini di relazioni. Vivere in termini di relazioni era il modo in cui vivevano le culture indigene al tempo in cui i conquistadores europei presero le loro terre ...

Per quelle genti, la terra, il cielo, le montagne, i fiumi, le piante e gli animali dovevano essere trattati con rispetto e umiltà perché considerati, al pari di loro, esseri con dignità e identità. Vivevano come parte della natura e chi ne violava le regole, si diceva, incorreva nella sfortuna per sé e per la propria famiglia e tribù. Ecco perché agli occhi dei pionieri, che per primi si avventurarono nelle loro terre, esse apparivano incolte, terre vergini e chi le abitava dei ‘selvaggi’, perché non avevano saputo sfruttarle.
La nostra moderna società tecnologica, nel tentativo di ‘migliorare’ le condizioni di vita della gente, ha sistematicamente semplificato l’importanza e la complessità della natura fino a renderla mero substrato materiale per strutture e sovrastrutture. Per molti secoli, millenni ormai, ci siamo isolati, come se fossimo una specie a-parte, dimenticando il nostro legame con il mondo naturale.

In questi ultimi anni sembra che, finalmente, un po’ tutti nel mondo occidentale si stiano rendendo conto di come tutto sia in relazione, soprattutto da quando è la qualità e la sicurezza della propria vita a farne le spese. L’aria è irrespirabile, l’acqua è inquinata, il cibo alterato, e proprio da quei sistemi e mezzi di produzione che hanno dettato il tanto decantato benessere e successo economico.
Alluvioni, desertificazione, stravolgimenti atmosferici, montagne che franano, effetto serra, riduzione della fascia dell’ozono, diminuzione della diversità biologica, non sono altro che la voce della Terra che ci dice quanto deleterio sia il nostro modo di essere e quanto la nostra cultura sia orfana di umiltà e di consapevolezza. A tutto questo si contrappone una crescente sensibilità e preoccupazione verso i problemi arrecati ai meccanismi ecologici.

Nuove soluzioni eco-sostenibili in agricoltura e nell’industria stanno lentamente prendendo piede, i temi dell’ecologia entrano timidamente nei programmi scolastici e ogni anno nuovi territori dove la natura è protetta si aggiungono alla lista.
Un impegno, quest’ultimo, quanto mai necessario e di buon auspicio. Ma, nonostante sia importante e meritevole, si ha la sensazione che sia tremendamente insufficiente e in qualche modo superficiale.
Insufficiente, perché la natura non è relegabile in piccoli spazi ‘dorati’, è come pretendere che l’aquila e il cervo rispettino dei confini, credere a questo significa sminuire la loro selvaticità e il loro più ampio bisogno di relazione e per noi rimanere intrappolati in una concezione di separazione da essa.
Superficiale, perché quello di cui c’è bisogno è una cultura che vada oltre la concezione meccanicistica della natura e ne faccia propri i significati e le relazioni—oltre a produrre i necessari cambiamenti politici, produttivi e tecnologici. Una cultura che conosce la natura, ispirata e connessa ai ritmi delle stagioni, alla complessità dei cicli e alle diverse forme di vita. Una cultura che abbandoni l’oggettivazione in atto di tutto ciò che in natura esiste e ne apprenda finalmente i meccanismi—non per stravolgerli—ma per armonizzarsi dentro. Una cultura umile, che sappia rispettare l’apparente caos selvatico come fonte e fulcro della vita—di tutta la vita.

L’idea bioregionale nasce, appunto, da questa esigenza di recupero del nostro essere parte del più ampio mosaico della vita. E lo fa partendo dalla consapevolezza che tutti noi abitiamo in luoghi di relazioni: questi luoghi sono le Bioregioni. La Terra, infatti, è organizzata in bioregioni, e cioè: territori omogenei definiti per continuità di paesaggio, di tipo di suolo o di clima; di interezza fluviale—col suo reticolo di corsi d’acqua, valli e versanti montani—oppure seguendo i confini porosi di piante e animali autoctoni. Anche l’uomo, con le sue culture, può essere modello nella definizione di una bioregione, almeno nella misura in cui egli ha saputo interagire e mantenere un rapporto equilibrato con la natura circostante.

Anche questo è un punto su cui val la pena soffermarci per una attimo e costatare come da tempo nel nostro paese, come pure nel resto d’Europa e oltre, si sia persa quella sofisticata sensibilità verso il luogo che ci permetteva di sentirlo come un intreccio di esseri e di relazioni. L’abbiamo sostituita o anteposta a teorie di supremazia sul territorio, di superiorità di razza, di religione, di potere nazionale, ideologico ed economico. E’ la storia che si insegna nelle scuole, condivisa e accettata come ineluttabile. Ma dal punto di vista bioregionale essa è costata alla gente la perdita del ‘Sogno della Terra’, ed è questo ‘Sogno’ che l’idea bioregionale intende riproporre mostrando al mondo e ai popoli la necessità di recuperare il senso di relazione con tutto ciò che corre, striscia, nuota e vola; con i cicli, i climi, i venti, le piogge, le nevi e ogni altra cosa che crea e sostiene la vita. E di crederci così tanto che qualunque siano le differenze di cultura, classe, religione, etnia o lingua, ciò rappresenti quel ‘terreno comune’ verso il quale tutti possiamo far riferimento e trovare l’accordo e la convivialità necessaria nel rispetto delle differenze e delle necessità.

C’è un termine che ben sintetizza il percorso da intraprendere ed è “Ri-abitare”: abitare di nuovo il proprio posto da una prospettiva che ne ridefinisca le teorie, le tecniche, le pratiche, gli umori e le sensazioni affinché si trovi il giusto modo di interagire con i sistemi ecologici a tutti i livelli: economico, tecnologico, agricolo, educativo, energetico, politico, religioso ed ogni cosa utile alla società per vivere sostenibilmente e dignitosamente nella propria bioregione. Ma sentiamo la più esaustiva definizione che ne da Peter Berg—uno dei precursori del movimento bioregionale: “ri-abitare vuol dire imparare a vivere in un posto, in un’area che è stata infranta e lesa da un passato di sfruttamento. Significa ri-diventare nativi del posto ed essere consapevoli della miriade di relazioni ecologiche che operano dentro e attorno ad esso. Significa comprendere le attività e i comportamenti sociali che in prospettiva arricchiranno la vita di quel posto, ne ripristineranno i sistemi di supporto vitale e stabiliranno al suo interno uno schema di esistenza ecologicamente e socialmente sostenibile. In poche parole, diventare pienamente vivi nel e con il posto e darsi da fare per diventare membri della comunità biotica e smetterla di essere i suoi sfruttatori.”

Ma perché poniamo così grande attenzione al posto, alla bioregione, quando sappiamo bene che ovunque nel mondo le cose non vanno di certo meglio, se non peggio? Per prima cosa significa prenderci le nostre responsabilità nel più ampio riequilibrio planetario; in pratica non si può pretendere che gli altri preservino le loro terre e noi continuare a banalizzare e alterare le nostre. Questo non significa sminuire l’importanza e la drammaticità degli squilibri ecosistemici e dei guasti sociali a livello nazionale e mondiale, ma di ammettere che tutto è in relazione e tutti ne siamo coinvolti, e che il ‘vero lavoro’ inizia proprio ‘dietro casa’, nel luogo/bioregione in cui si vive. Si tratta di riapprenderne le potenzialità, le complessità, le connessioni e i limiti e di indagare sulla fonte dei guasti e le loro relazioni sia a livello locale che globale e agire con scelte e stili di vita appropriati. La bioregione è il teatro della pratica e il banco di prova per meritarci di nuovo l’appellativo di ‘cittadini’ della Terra. Una bioregione è un luogo reale, concreto, è dove seminiamo il grano adatto, dove fabbrichiamo gli arnesi appropriati, quale habitat la gazza predilige; dove ci riuniamo per discutere i problemi della gente, i sistemi di educazione e le scelte produttive; i nostri rapporti con il fiume, la montagna, la pianura…. e infine, l’apprendimento che riceviamo dal vivere con senso di reciprocità e del limite è forse il modo più appropriato di rispetto verso gli altri popoli, le altre bioregioni, e verso la Terra intera.

A questo punto è forse legittima una domanda: da dove e come iniziare la pratica bioregionale?
E’ semplice: da noi stessi e dalla capacità di recuperare la nostra più vera e profonda dimensione umana, e cioè: la capacità di sentirci a proprio agio nel più ampio consesso dei viventi.
E’ un viaggio innanzitutto dello spirito, quindi difficilmente relegabile in nozioni o ricette. Non esiste il vademecum del perfetto bioregionalista. Ognuno ha il proprio punto di partenza, il proprio vissuto, le proprie emozioni, debolezze, situazioni e soprattutto ogni luogo è diverso dall’altro, con peculiarità, necessità e identità proprie. Da parte mia posso condividere, brevemente, quello che è stato il mio percorso.

Come figlio di contadini sono cresciuto in relazione e a contatto con la natura del luogo in cui tuttora vivo. Le siepi tra i campi, lo stagno vicino a casa e il fiume in lontananza erano il teatro dei miei giochi. Ho sempre provato un’attrazione particolare verso tutto ciò che misteriosamente si muoveva in questo mondo ‘Altro’. Ad un certo punto, mi ricordo ancora bene, ebbi come una sorta di ‘punto di svolta’ e cioè: o approfondire questo legame intimo con la natura, oppure seguire l’eco della ‘rivoluzione’ (tra virgolette) degli anni sessanta che sopraggiungeva. Decisi per la seconda, e come molti della mia generazione feci le mie esperienze, proteste, viaggi, errori. Fu un’esperienza essenziale dove ai paradigmi di una cultura massificante e livellatrice si preferiva una sorta di mutamento interiore a cui era sì problematico contenerne l’esuberanza, ma che in cambio, molto spesso, regalava preziose tracce da seguire. Fu così che, completato il cerchio, sono tornato alle mie siepi, al mio stagno, al mio fiume……e questa volta per restarci.

La mia idea era di ritornare alla pratica dei significati base della vita: spaccar legna per cucinare e riscaldare la casa, raccogliere erbe e frutti spontanei per soddisfare, almeno in parte, le esigenze alimentari della mia famiglia, seminare migliaia di semi e coltivare la pazienza finché non giungano a maturazione, nutrirci dell’intreccio vitale con gli esseri del posto e….ringraziare appropriatamente.
Col passare del tempo tutto questo si rivelò come una vera e propria introduzione allo spirito del posto. Le siepi, lo stagno, il fiume mi mostrarono i loro abitanti, le tracce sulla neve d’inverno mi raccontavano di quelli più elusivi, il profumo delle piante mi introduceva al ciclo delle stagioni, il fiume mi rese consapevole che il luogo dove abitavo era parte di un insieme più ampio. Lui, il fiume, mi parlava di luoghi lontani e vicini, di storie lontane e vicine, e non tutte a lieto fine, tutt’altro. Erano storie di inquinamento, devastazioni, perdita di rispetto verso tutto ciò che vive, così iniziai ad unirmi a gruppi e associazioni che lavoravano per risanare la situazione, ma quantunque fosse un lavoro utile e meritevole era frustrante la mancanza di visione, l’incapacità di vedere che accanto al giusto lavoro di difesa e di protezione dell’ambiente, era necessaria la consapevolezza che pure noi siamo parte del problema e il modo in cui progettiamo e viviamo la nostra vita è parte della soluzione.
La nozione bioregionale, infine, di insieme omogeneo e l’esempio di altri sul mio stesso cammino mi pose nel giusto contesto, così quella che era solo una percezione iniziò ad assumere i contorni di una bioregione. Una bioregione, la mia, definita dal grande bacino fluviale del fiume Po, che in tempi geologici ne ha disegnato i contorni, modellato il clima, distribuito distinte popolazioni di piante e animali, ispirato storie e culture.

Per terminare, quale contributo può dare la visione bioregionale al ri-equilibrio planetario, sia in termini sociali che ecologici? Nessuno, se rimane una mera teoria o un qualcosa che ‘cala dall’alto’. Molti, invece, se inizia a trovar posto in noi stessi e nel modo in cui viviamo e ci relazioniamo con i nostri vicini, umani e non umani. In natura, l’informazione corre altrettanto velocemente come su internet: se agisci in modo corretto e con umiltà questo non passa inosservato, e allora la natura ti viene incontro. E così è con le persone: se il messaggio è onesto e profondo prima o poi verrà captato e fatto proprio da altri…….ma si sa, viviamo in tempi scollegati, in cuori persi e la nebbia regna nelle nostre menti.
Ci vorrà tempo.

Tratto dalla rivista “Lato Selvatico” e dal libro “Per la Terra”, edizioni Associazione letteraria Ellin Selae, 2007 – http://www.ellinselae.org