Slow Food pubblica un nuovo dossier dedicato ai cereali più coltivati al mondo e torna a chiedere l’applicazione di clausole specchio valide a livello internazionale...
Non fatevi intimorire dal nome ostico: si chiamano “clausole specchio”, ma non sono poi così complicate da capire. Ne abbiamo parlato già l’anno scorso, quando abbiamo raccontato come funziona l’importazione all’interno dell’Unione europea di alimenti prodotti al di fuori dei confini comunitari. In sostanza, denunciavamo il fatto che le regole applicate fuori dall’Ue per quanto riguarda la produzione alimentare (ad esempio, quali sostanze sono consentite e quali vietate, i limiti nel loro utilizzo, le norme e i regolamenti sulla tutela del benessere animale o sulla deforestazione) non sono le stesse applicate per produrre cibo all’interno dell’Ue, e che quindi all’interno del mercato comunitario arrivano prodotti che non rispettano le norme che invece valgono per chi produce internamente quegli stessi prodotti. Chiedevamo, insomma, clausole specchio, cioè regole uguali per tutti. Anche perché, altrimenti, è una beffa da ogni punto di vista: un pericolo sotto il profilo della salute dei consumatori europei, esposti a prodotti meno salubri; una forma di concorrenza sleale, poiché produrre in maniera meno rigorosa sotto il profilo della responsabilità ambientale ha costi inferiori; e una minaccia per la salute e il benessere di animali, insetti, suolo ed ecosistemi.
Il caso di grano e mais
Alle tre filiere di carne bovina, soia e riso, a cui l’anno scorso abbiamo dedicato altrettanti dossier di approfondimento, ora aggiungiamo quello che riguarda il grano e il mais, i due cereali più coltivati al mondo e che l’Unione europea importa in quantità significative.
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Mais
Per quanto riguarda il mais, la produzione ha raggiunto (dati Ismea relativi al 2023) 1,23 miliardi di tonnellate. Due terzi sono destinati all’alimentazione animale, una parte è a fini industriali, soprattutto per ottenere biocarburanti, e solo il 10-12% è destinato all’alimentazione umana. L’Unione europea, che si colloca al quarto posto tra i produttori globali (dietro a Stati Uniti, Cina e Brasile), importa circa il 29% del mais di cui ha necessità.
Grano
Per quanto riguarda il grano, all’interno dell’Ue si produce circa il 14% di quello coltivato a livello mondiale. Con specifico riguardo al grano tenero, da cui si ricava la farina per la produzione di pane, pizza, dolci e prodotti da forno, i principali fornitori sono Stati Uniti e Canada, e sempre il Canada rifornisce in gran parte l’Unione europea di grano duro, utilizzato per pane e soprattutto pasta (di cui l’Italia, pur essendo il principale produttore europeo, importa un terzo del suo fabbisogno).
In entrambi i casi, parliamo di coltivazioni condotte perlopiù su larga scala, in monocolture e con modelli convenzionali: produzioni in cui si fa largo uso di pesticidi, erbicidi e diserbanti, sostanze il cui utilizzo è strettamente regolamentato all’interno dell’Ue, ma molto meno al di fuori dei confini comunitari. Chi l’anno scorso ha letto i nostri articoli sulle filiere della carne bovina, del riso e della soia, ricorderà di aver sentito parlare dei LMR, i limiti massimi di residui per i pesticidi nelle colture alimentari e foraggere. Nei tre casi di cui parlavamo, abbiamo spiegato il meccanismo per cui i LMR dei prodotti importati sono più alti (cioè hanno standard più permissivi, ovvero possono esserci residui più alti) rispetto a quelli prodotti nell’Ue.
Per quanto riguarda il mais e il grano, la questione è leggermente diversa: nella cerealicoltura, infatti, la tipologia di sostanza più utilizzata è quella dei diserbanti, che vengono impiegati prevalentemente in “pre-emergenza”, ovvero subito prima o contemporaneamente alla semina, per “ripulire” il terreno da erbe infestanti in essere o in fase di germinazione. Siccome questi trattamenti avvengono lontano dalla raccolta, è piuttosto improbabile che nel raccolto si trovino residui significativi.
A parte i residui, però, il tema relativo all’utilizzo di sostanze chimiche riguarda gli effetti dannosi sull’ambiente: di certo, infatti, le sostanze chimiche si depositano sul suolo, contaminando le acque e aggredendo i microrganismi della fertilità, e inquinano l’aria. I danni, insomma, riguardano la sanità dei suoli, delle acque interne e dei mari, la biodiversità, la salute degli operatori che le utilizzano, la salute delle comunità che vivono in prossimità delle grandi monocolture.
Certe sostanze chimiche non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano
In questo quadro, finora, non abbiamo fatto riferimento al dato più incredibile di tutti: e cioè che le sostanze chimiche (anche quelle vietate nell’Ue) vengono prodotte da aziende europee, che poi le esportano nei Paesi in cui possono essere utilizzate. In sostanza, a viaggiare da un lato all’altro del mondo non sono soltanto i cereali, ma anche i pesticidi. Qualche dato: nel 2018, sono state esportate più di 81 mila tonnellate di pesticidi contenenti 41 differenti sostanze chimiche vietate all’interno dell’Unione europea; nel 2023, la Germania ha esportato in Brasile 6700 tonnellate di Glufosinato, un erbicida che nell’Ue è vietato dal 2020 perché può compromettere la fertilità umana, danneggiare i feti e gli organi interni, e 750 tonnellate di Cyanamide, un erbicida e regolatore di crescita, sospettato di causare cancro, danni ai feti, e disordini della fertilità, oltra a essere tossico se ingerito. Sono due esempi che ben raccontano una situazione paradossale: quella per cui, qua da noi, si producono sostanze chimiche il cui utilizzo è vietato in Europa per motivi di sicurezza, ma che vengono vendute ai Paesi da cui poi noi stessi importiamo i prodotti agricoli.
Non è difficile, insomma, che una parte dei cereali coltivati dall’altra parte del mondo, in terreni su cui vengono utilizzati pesticidi e diserbanti vietati in Europa, alla fine arrivino anche nel vecchio continente, ad esempio per alimentare gli animali, le cui carni saranno poi, in parte, nuovamente esportate con i pregiati marchi europei, seguendo rotte quasi infinite, e in parte consumati internamente.
Un caso a parte è quello del Glifosato, un erbicida attualmente consentito anche all’interno dell’Unione europea, nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità l’abbia da anni inserito tra le sostanze ‘probabilmente cancerogene’ e recentemente al centro di uno studio dell’Istituto Ramazzini di Bologna, che ha confermato la correlazione tra glifosato e cancro (qui la nota di Slow Food Italia). In Canada, da cui l’Italia importa grandi quantità di grano duro utilizzato per produrre la pasta, il Glifosato è registrato come uno strumento per il controllo delle infestanti in fase di pre-raccolta, ma vi sono sospetti che possa venire usato anche come disseccante, benché non siano mai stati rilevati residui superiori ai limiti di legge.