C’è ancora posto per la speranza?

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di Emilia De Rienzo.

Dicono che la speranza sia stata seppellita sotto le macerie. Che sperare è un ottimismo ingenuo, qualcosa fuori dalla realtà che non serve a nulla. La domanda in realtà è: di quale speranza parliamo? Per Primo Levi è un pezzo di pane condiviso quando si ha fame, una parola sussurrata nella notte, il ricordo di una poesia recitata a memoria. Se la speranza è un principio, il “non ancora”, allora è l’energia che rinasce sempre e ovunque, è ciò che spinge oltre. Non smettere di immaginare mondi diversi è il primo atto di speranza e ribellione da proteggere...

La parola “speranza” oggi sembra fare silenzio, seppellita sotto le macerie. Nel rumore delle guerre, nell’ingiustizia che si ripete, nelle macerie fisiche e morali che ci circondano, è facile considerarla un lusso, una parola ingenua o persino offensiva. Eppure, proprio quando sembra scomparsa, lo torna come esigenza vitale, come domanda che non possiamo soffocare.

Credo che lo dobbiamo a tutti coloro che hanno perduto la vita, che la perderanno domani, che se sopravviveranno dovranno fuggire ancora, essere cacciati ancora, vagare ancora in cerca di una terra che li accolga. Come i profughi di oggi che nessuno vuole, come quelli di ieri che bussavano invano alle porte del mondo.

È per mantenere vivo il dialogo con loro, con i morti e con i vivi che soffrono. Perché chi ha visto, chi ha sentito, chi disapprova, non si arrenda all’inerzia, non perda la forza, non si lasci vincere dal buio.

Tutti coloro che imbracciano le armi, che pronunciano frasi irripetibili perché si sentono vittoriosi, hanno vinto, sì. Ma la loro vittoria è fatta di macerie e di morte. Noi cerchiamo un’altra vittoria: quella minima e immensa della speranza che diventa motore, resistenza, lotta.

Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, racconta come nei campi di concentramento si cercasse la speranza nei gesti più piccoli: un pezzo di pane condiviso quando si aveva fame, una parola sussurrata nella notte, il ricordo di una poesia recitata a memoria. Non erano grandi visioni di futuro, ma scintille minime che impedivano al buio di essere totale. “Anche nel luogo più disumano – scrive Levi – qualcosa resiste. È questo qualcosa che ci rende ancora umani”.

La speranza dei campi non era ottimismo. Era sopravvivenza dell’anima quando il corpo era già morto. Era il rifiuto di consegnare completamente la propria umanità ai carnefici. Ogni atto di solidarietà, ogni gesto di cura verso l’altro diventava una forma di resistenza, un atto politico contro la macchina dello sterminio.

Emily Dickinson, dalla sua stanza silenziosa, la descrive come “la cosa con le piume che si posa sull’anima e canta la melodia senza parole – e non smette mai”.

Non chiede niente in cambio, non ha pretese di grandezza. È lì, testarda come un uccello che canta anche nella tempesta, anche quando sembra che non ci sia più nessuno ad ascoltare.

José Saramago, nel suo Ensaio sobre a Cegueira (titolo originale del romanzo distopico, noto in Italia come Cecità, ndr), ci mostra un mondo precipitato nella cecità collettiva, dove gli uomini perdono non solo la vista ma anche l’umanità. Eppure, anche lì, la speranza si accende quando qualcuno si prende cura di un altro, quando una mano cerca un’altra mano nel buio, quando una voce dice: “Non sei solo”.

La vera luce non torna con il recupero della vista fisica, ma con il ritrovare i legami. La speranza, per Saramago, non è vedere il futuro, ma riuscire a vedere l’altro, anche quando tutto sembra perduto.

Ernst Bloch ci insegna che la speranza non è consolazione facile ma “Prinzip Hoffnung”, principio speranza. È la forza del “non ancora”, l’energia che spinge oltre il presente, che rifiuta che ciò che è debba rimanere così per sempre.

“Senza speranza – scrive Bloch – l’uomo smette di sognare e di agire”. La speranza è allora sovversiva: immaginare un mondo diverso è il primo atto di ribellione contro l’ingiustizia del mondo presente.

Paul Ricoeur lega la speranza alla memoria, ma non a quella che imprigiona nel passato. La memoria viva è quella che trasforma il ricordo in promessa di giustizia. Ricordare i morti, ricordare le ingiustizie subite, non per restare paralizzati dal dolore ma per impedire che si ripetano, per onorare chi non c’è più continuando a lottare.

La speranza nasce dall’atto di fedeltà: fedeltà ai morti, fedeltà ai valori traditi, fedeltà al sogno di giustizia che non si è ancora realizzato. È memoria che diventa futuro, passato che non si rassegna ma promette.

David Grossman, voce israeliana che ha conosciuto il lutto e la guerra, ci consegna la speranza attraverso la parola. Nei suoi libri, scritti spesso dopo perdite terribili, insiste che il racconto è ciò che ci resta quando abbiamo perso quasi tutto.

Scrivere, raccontare, testimoniare: in ogni parola pronunciata o scritta c’è la possibilità di rinascere, di dare senso al dolore, di trasformare la ferita in forza. La parola è l’ultima trincea dell’umano, il luogo dove la speranza si fa resistenza concreta.

Davanti alle macerie del nostro tempo, davanti ai popoli interi in balia di carnefici che forse hanno nonni sopravvissuti ad Auschwitz – paradosso atroce e impensabile della storia – la speranza non può essere solo consolazione privata. Deve diventare atto politico, scelta di campo, rifiuto della rassegnazione.

Sperare oggi significa: ricordare per impedire che l’oblio renda possibili nuovi orrori; testimoniare perché la verità non muoia sotto le macerie della propaganda; accogliere chi fugge, perché nessuno resti solo davanti alla violenza; resistere all’indifferenza, all’abitudine al male, alla normalizzazione dell’orrore; costruire legami di solidarietà che attraversino confini e differenze.

Ecco allora che la speranza, nelle voci di Levi, Dickinson, Saramago, Bloch, Ricoeur e Grossman, appare sotto forme diverse: gesto minimo, respiro interiore, legame ritrovato, principio di futuro, promessa di giustizia, parola che salva. Non è ottimismo superficiale, né fuga dalla realtà. È la forza fragile e necessaria che impedisce la resa totale.

Non speriamo perché il mondo sia meno duro, ma senza speranza non c’è futuro, non c’è memoria viva, non c’è parola che resista. La speranza è la forma minima e insieme radicale della nostra umanità.

È per i morti che chiediamo giustizia. È per i vivi che cerchiamo la luce. È per chi verrà dopo di noi che non ci arrendiamo.

Hanno vinto una battaglia, ma la guerra per l’umanità continua. E in questa guerra, ogni atto di speranza – per piccolo che sia – è un atto di resistenza, un rifiuto di consegnare il mondo alla barbarie.

La speranza è ciò che rimane quando tutto sembra perduto. È ciò che dobbiamo custodire, alimentare, trasmettere. Per loro. Per noi. Per continuare a essere umani.

Tratto da: https://comune-info.net/ce-ancora-posto-per-la-speranza