Dalla Camera del Lavoro alle aule del tribunale ...

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di Carlo Sottile.
ImageSapevo che si sarebbe svolta l'ennesima udienza del processo ai sindacalisti della CGIL astigiana. L'accusa: estorsione. Ho voluto essere presente “per fatto personale” perché sono tuttora iscritto a quella organizzazione. La mia prima tessera risale al 1957. Di qua delle transenne eravamo in pochi: qualche parente e amico degli imputati, due dirigenti della Camera del Lavoro; salvo le impennate retoriche degli avvocati, tutto molto dimesso. All'inizio (ormai è trascorso qualche anno) l'accusa aveva fatto notizia e le strumentalizzazioni si erano moltiplicate. Troppo ghiotta l'occasione per demolire storia, memoria e pratica del più importante sindacato cittadino. E' bastato che passassero poche settimane per capire che il danno morale e politico sarebbe stato irreparabile. Troppo contraddittorie ed esitanti le reazioni interne al sindacato, “la verità” messa in mano alla magistratura, qualche dichiarazione di garantismo, la costituzione di parte civile rimandata. Insomma la paralisi ...

Volevo sentire la parola degli avvocati di “parte civile”, Lamatina e D'Amico, quelli che in qualche modo dovranno formulare un risarcimento, nell'ipotesi che l'accusa venga confermata. Un compito ingrato, perché non loro ma i sindacalisti avrebbero dovuto distinguere tra il ruolo dei singoli e la storia dell'organizzazione, tra le responsabilità personali e quelle politiche. Un compito portato brillantemente a buon fine, ma un risultato mediocre per la CGIL, perché arrivato fuori tempo e nel luogo più innaturale per apprezzarne i contenuti.

Quel distinguo, i dirigenti della Camera del Lavoro avrebbero dovuto farlo pesare subito, a ridosso dei fatti. Cosa che purtroppo non è avvenuta, come se l'impegno e la fiducia di migliaia e migliaia di lavoratori e di centinaia di militanti sindacali non valessero la denuncia di un errore e la revisione di un assai discutibile condotta, oppure l'opposizione netta (e pubblica) ad un evidente tentativo di corruzione. Invece, solo nel corso del processo e per ammissione degli stessi imputati, si è saputo che quel tentativo c'è stato.

Sono stato “sindacalista di base”, la categoria di quei presuntuosi che pensavano di cambiare il mondo senza abbandonare il posto di lavoro. “Rossi e specialisti”, insomma, come ci accreditavamo tra noi, “rompicoglioni” e idealisti, irresponsabili e trozchisti come ci delegittimavano loro, sindacati confederali e padroni.
Scioperi prima, durante e dopo le trattative e contemporaneamente a queste ultime “siamo tutti delegati”, si diceva. La tentazione era di fare gli incontri con le controparti in assemblea, poi fatalmente si finiva in riunioni “ristrette”, ma noi mai meno di dieci. Il nostro carisma lo consumavamo cercando di far capire ai nostri compagni di lavoro che avremmo dovuto prepararci a gestire l'azienda, dunque sul lavoro nessuno doveva farci le pulci, ma aperta la vertenza “padroni è la guerra” e via.

Capitava di dover sospendere il lavoro, salire sulle auto personali e precipitarci dove un'impresa, rompendo un patto di solidarietà,  tentava di sostituirsi a noi. Una volta vicino a Costigliole, è andato “a bagno” un cavo che reggeva fasci di comunicazioni verso mezza Italia. Persino Gancia, che allora era un pezzo grosso della Confindustria, non poteva usare il telefono.  Siamo arrivati, almeno in venti. Io sono sceso in buca, uno scavo di un metro, largo poco più di mezzo, dentro c'era già il “giuntista,, la mia faccia a una spanna dalla sua, toni severi da pedagogo:  “vergognati, noi siamo in lotta anche per i tuoi diritti, lascia il lavoro e vattene...”. Sopra di me c'erano il mucchio di terra e i badili, più in alto - era un pendio - i miei compagni di lavoro che facevano la volata ... crumiri, crumiri ... era difficile resisterci.
Oggi, in questa situazione surreale, dove qualcuno raccoglie consensi dichiarando l'abrogazione del conflitto sociale, lo rifarei; anche solo per igiene mentale.

Per chi era operaio ed aveva il gusto delle grandi narrazioni, nella CGIL trovava il modo di difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro e, insieme, la letteratura per arricchire di senso e di passione la propria scelta sindacale. C'era il racconto di un grande movimento di riscatto sociale, un movimento di popolo. Aspri conflitti che negli anni del primo dopoguerra sono costati il sacrificio di molte vite di sindacalisti e che negli anni successivi sono stati la scuola civile di migliaia e migliaia di operai e contadini, sono stati il romanzo di vita di intellettuali e oscuri militanti, senza di che non ci sarebbe oggi nemmeno una storia d'Italia. 
Ascoltando le parole degli avvocati pensavo che questo fosse stato il tratto forte del mio rapporto con la CGIL. Per il resto piuttosto ruvido, vissuto dalla parte delle minoranze. Salvo il breve periodo del CUB, Comitato Unitario di Base, che ha coinciso, negli anni 70, con il momento alto delle lotte sindacali in Italia; è stato quello il mio sindacato.

Di quegli anni mi è rimasta una acutissima avversione verso il potere degli apparati e delle burocrazie, verso le deleghe, le cooptazioni; insomma: verso tutte quelle pratiche lontane dalle regole di una democrazia partecipata. Da quegli anni ho distillato una mia posizione politica, che nel dibattito processuale ha trovato conferma. Non l'ha trovata invece ogni volta che mi sono confrontato con miei sodali di sindacato e di partito.
L'anomalia astigiana di cui si è parlato per argomentare un inesistente complotto, non era l'atteggiamento troppo antagonista di chi dirigeva le lotte. Dominava, invece, la cultura politica di un gruppo di sodali, fatta di spirito di appartenenza, autoreferenzialità, primazia del potere e uso troppo disinvolto delle doppie verità: una per le assemblee e il momento del conflitto, l'altra per i dirigenti e le “riunioni ristrette”. Lo specchio della peggiore cultura d'impresa. Dal processo si è venuto a sapere che ad alcune di queste riunioni ci andava un solo sindacalista, al massimo due. Una presunzione smodata, frutto di quella cultura, più ancora che dell'intenzione dei singoli.

Funzionava ..., peccato che esponeva sindacato e sindacalisti alle peggiori contromosse delle parti padronali. In altri termini, le due parti, nelle “riunioni ristrette”, finivano con l'assomigliarsi troppo, oltre le necessità di una mediazione. Come si è visto.