A come Agricoltura e Afghanistan

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di Paolo X Viarengo.

L’estate è passata con le sue gelate. Le sue grandinate. Le sue bombe d’acqua. I suoi danni all’agricoltura per cui le varie associazioni di categoria stanno chiedendo di aumentare i rimborsi assicurativi. Chiedono, giustamente, più soldi per far recuperare le perdite di fatturato agli agricoltori: anche loro devono mangiare. Ma cosa mangeranno? Soldi? Carta moneta? Anzi, cosa mangeremo tutti? Soldi? Carta moneta? Cosa mangeremo se il tempo inclemente continuerà a distruggere i nostri raccolti? Cosa mangeremo se la siccità, le alluvioni, le gelate spazzeranno le produzioni alimentari?...

Van bene gli indennizzi, necessari per chi su quel raccolto di un anno di lavoro ci campa, ma se il raccolto non ci sarà più per tutti, come camperemo tutti quanti?

Forse il problema sarà questo. Forse il problema è già questo. Forse la quarta crisi di questo inizio millennio, annunciata, paventata, ignorata, è già arrivata. I sociologi sono sempre stati concordi nell’affermare che dopo la crisi socio politica del 2001, quella finanziaria del 2008 e quella sanitaria del 2020 sarebbe arrivata quella climatica.
Ma le prime tre le abbiamo risolte?

La risposta è, purtroppo, davanti agli occhi di tutti con la fuga degli occidentali dall’Afghanistan occupato, appunto, a seguito della prima crisi del 2001. L’11 settembre erano state abbattute le Torri Gemelle a New York e, per tutta risposta, le truppe americane avevano occupato l’Afghanistan ricettacolo, a loro dire, dei terroristi. Poco ha importato che poi il famigerato Osama Bin Laden, presunto mandante dell’attentato alle Torri Gemelle, non sia stato assassinato in quel paese ma in un altro. Vent’anni di occupazione militare che non hanno sortito nulla. Vent’anni di stragi e di morti per imporre un’idea che non ha mai attecchito.

Ma se arrivasse un esercito a casa mia e mi dicessero che non devo più bere vino perché fa male, come la prenderei? Probabilmente berrei vino di nascosto: esattamente come succedeva negli stessi Usa quando proibirono le bevande alcoliche. Ma se invece di un esercito arrivasse qualcuno che, con calma e con l’esempio, mi spiegasse che il vino bevuto in quantità eccessive fa male, probabilmente - nel corso di vent’anni, magari non io legato alle tradizioni vitivinicole della mia terra, ma i miei figli - imparerebbe a bere vino con moderazione.

Questo in Afganistan non è stato fatto. Si è tentato di imporre, con le armi e la violenza, un’idea nuova su tradizioni secolari. Dopo vent’anni tutto è tornato come prima. Curiosamente lo stesso lasso di tempo in cui in Italia, un secolo fa, si è tentato di imporre un’idea, con armi, manganelli, olio di ricino, guerre e morti: ottenendo lo stesso risultato. Ma la Storia spesso è ignorata ed è bello sentirsi forti, potenti e virili con i mitra in mano ad imporre la propria idea.

Quindi la prima crisi, oggi dopo vent’anni, è tutt’altro che risolta. Affrontata con la presunzione di essere i padroni del creato ed uscendone sconfitti. Ma non ridimensionati, anzi. Ancora più arroganti, tentiamo di pagare con soldi quello che non si può pagare con soldi: i raccolti. Il cibo. La vita.

Come la prima crisi non si doveva risolvere con i muscoli ma con il cervello ed il cuore, anche la quarta non si deve affrontare con i soldi e l’arroganza, ma con l’umiltà. L’umiltà di capire che l’uomo è parte del pianeta e non padrone di esso. O lo capiremo adesso o lo capiremo tra vent’anni, fra mea culpa e carestie: un piatto di pasta non può essere sostituito da un piatto di biglietti da cento euro. Provate a mangiare il secondo e non il primo, a pranzo, e sarete d’accordo con me.
E tutto deriva da una errata concezione del sistema e del mondo: l’uomo non è al centro dell’Universo. L’uomo occidentale non è il padrone del mondo. Nessuno è sopra nessuno.

Nemmeno sopra le altre specie viventi. Troppa parte del raccolto è destinata all’alimentazione animale. Troppe foreste sono abbattute per fare spazio a monocolture destinate a far ingrassare noi, il nostro desiderio di carne e gli animali che lo producono. Animali privati di una vita propria e torturati, uccisi e venduti a tranci, non come esseri viventi capaci di emozioni, ma come un mobile dell’Ikea. Anzi peggio, perché se graffio il mobile durante il montaggio mi arrabbio. Se il maiale si ferisce durante la sua vita in gabbia o soffre atrocemente perché sgozzato e buttato in una vasca di acqua bollente ancora cosciente, pazienza: io vedrò solo lo squisito salame che diventerà. Eppure ho cani e gatti in casa, che vizio, coccolo e amo profondamente. Eppure maiali, bovini, pecore, conigli, galline non sono meno intelligenti od affettuosi. Ma sono merce, non esseri senzienti.

Continuo a vedere pubblicità bucoliche di mucche che pascolano soavemente nel prato felici di fornire il loro latte, ma non vedo che per darmelo, essendo mammiferi, devono essere messe incinte, spesso con metodi brutali. Devono partorire e i loro piccoli non devono succhiare il latte, altrimenti non ce ne sarebbe più per me, ma devono esserli strappati. Ingrassati. Ammazzati. Venduti come bistecca: quando una semplice, buona ed economica pasta con i ceci potrebbe egregiamente sostituirlo.
Così come le foreste potrebbero tornare ad inverdire un pianeta pronto ad esplodere, fornendogli ossigeno e fresco: basterebbe smetter di tagliarle e piantarne di nuove invece di mettere soia per ingrassare le povere bestie che finiscono nei nostri piatti ad aumentare il nostro colesterolo. La nostra obesità. Le nostre malattie cardiovascolari. I nostri ictus.

Eppure non smettiamo. Non smettiamo di crederci al di sopra di tutto e tutti. Continuiamo a dare un prezzo a tutto. A mercificare tutto. A voler imporre il nostro credo con le armi.  
Ricordo una discussione astigiana sul recupero del Bosco dei Partigiani. C’era chi voleva mettere telecamere, chiuderlo la notte, sorvegliarlo e pattugliarlo e chi voleva invece viverlo serenamente. In Afganistan hanno messo telecamere e lo hanno pattugliato invece di viverlo serenamente. Nei nostri piatti arrivano i prodotti di animali morti male dopo una vita vissuta come cose invece di una vita vissuta al nostro fianco. Serenamente.

Gli uni e gli altri parte di un pianeta che deve sopravvivere. E noi con lui.