Mezzo mondo come Gaza?

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di Guido Viale.

Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora...

Intere popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate allo sterminio con bombardamenti, cacce all’uomo, o per fame, sete, malattie non curate, accampate in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominejanni – è un esperimento per abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti, torture, violenze di ogni genere inflitte alla “genti in cammino” (people on the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi.

Fantapolitica? No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri governanti, i media che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto – più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere, con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima, destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica, che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con sempre maggior ipocrisia).

Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta, rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato. Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa – grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori, energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree desertiche, énclave aperte alle persone dotate di professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi. Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere invece uno scenario “alla Gaza”.

Ma questo è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi – “sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando. Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes, siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza.

Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”. D’altronde la strada è quella anche senza Trump.

Di fronte a prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se cercano in tutti i modi di non prenderne atto. È la dismisura tra le dimensioni di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica. Potremmo però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta – può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro, per ora?

Tratto da: https://comune-info.net/mezzo-mondo-come-gaza