Asti: amiamo o chiudiamo?

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Daniela Grassi e la Presidenza provinciale delle Acli di Asti.

Leggo i titoli dei giornali sui fatti astigiani degli ultimi tempi, solo qualche esempio, solo qualcuno: la clamorosa chiusura del Maina, le liste d’attesa della sanità con tempi scandalosi, la Biblioteca Faletti sotto organico e con orari insufficienti… E cammino per le strade e le vedo sempre più malinconiche e spoglie.
Pochi giorni fa, don Dino Barberis, direttore della Gazzetta d’Asti, ha detto di pensare a questa città “come se si fosse appena svegliata con poca voglia di alzarsi. Se si alzasse farebbe cose grandiose”. Sul fatto che “se si alzasse farebbe cose grandiose”, non ho dubbi, ma a me non pare appena sveglia, ma insonnolita, come sotto incantesimo, come un bell’albero che avvizzisce: avvizziscono i mercati, si riducono, come frutti che invece di maturare si ripieghino su se stessi; chiudono i negozi, persino quelli di catene note che ci ritroviamo ossessivamente in ogni città, qui si disseccano pure quelli...

E si avvizzisce il respiro, in una città terza in Italia per inquinamento dell’aria, al pari con metropoli come Torino e Milano e che potrebbe essere tanto differente se curata nei trasporti pubblici, nelle aree di parcheggio al di fuori del concentrico.

Non mancherei di dire che s’intristisce il cuore a vivere in un Comune dove non sventolano né la bandiera della Pace, né il giallo striscione che ci sostiene alla ricerca di giustizia per Giulio, ragazzo massacrato senza colpa da una ferocia senza giustificazione.
Quanto ai nostri ragazzi e ragazze, quale offerta di gioia, di interesse, di impegno siamo capaci a trarre dalla nostra cornucopia, quali doni e proposte siamo pronti ad offrire e a farci fare e accettare per loro e da loro?
Non c’è luogo a loro dedicato, in cui possano incontrarsi, confrontarsi, sviluppare le loro capacità e creatività in un momento storico in cui di creatività, diversità/unicità c’è bisogno come del pane, non c’è nel centro storico e meno ancora nelle sempre più trascurate e disadorne periferie, lontane come in una grande città, sebbene vicine nello spazio.

Abbiamo la fortuna di avere concittadini provenienti da molti paesi, li vogliamo valorizzare per ciò che portano, pur nella possibile difficoltà dell’incontro di diverse consuetudini? Vogliamo aprire lo sguardo sul mondo in cui siamo, sulle bambine e i bambini che saranno parte importante dei cittadini di domani?
E comunque mi domando: perché non si ha voglia di alzarsi, di aprirsi al giorno? Probabilmente perché ci si aspetta una giornata dura, perché non ci si sente abbastanza amati e si sa che una volta in piedi non ci saranno compagni amici a condividere il cammino, perché si è deboli, forse malati e non c’è chi si cura di questa fragilità.

Tanti sono i fattori, per cui in questa città un imbarazzante immobilismo colpisce chi sta a guardare il suo sonno senza com-passione, con una grave mancanza d’amore e della cura che si riserva a chi ci sta a cuore.

Si può essere ottimisti di vedere i begli occhi della nostra antica e attuale città aprirsi alla realtà con il sorriso di colei che sa che, al risveglio, ad attenderla c’è chi la sostiene con l’attenzione che si riserva alle cose preziose?  

Non si sa; non si sa per quanto la magia soffocante di turno terrà sotto incanto Asti: l’impressione è che l’incanto duri da parecchio tempo, tanto che forse ci siamo persino abituati a questo stato di cose, almeno in parte.
E quindi che si fa? Attendiamo il principe o fata madrina o tentiamo di tirare fuori quello/a che è dentro ognuno di noi?

Amiamola questa città, amiamola fino in fondo, tanto da passare sopra i vecchi dissidi, sopra gli interessi particolaristici, sopra i vecchi linguaggi e le spartizioni di territori intellettuali.

Utopia? Probabile, ma se non si crede all’Utopia si ha già perso. E allora tanto vale chiudere la città, come un vecchio cinema teatro, con tutti i suoi sogni chiusi dentro e andarsene su e giù in bicicletta lungo il muro triste della ferrovia in attesa del prossimo centro commerciale.