Gli uomini hanno più paura di vivere che di morire

Introduzione al libro di Miguel Amoros “La città totalitaria”, Nautilus, Novembre 2009.
ImageLa creatività, la varietà d’interessi, il senso di appartenenza al contesto in cui si risiede, la vitalità personale sono caratteristiche che determinano la qualità della vita delle persone. È su questi presupposti che le persone orientano, per quanto possibile, la propria esistenza, intuendo che se non sono in grado di esprimere queste peculiarità in modo pieno e soddisfacente non esiste alcuna possibilità di qualità della propria vita e, di conseguenza, di quella collettiva. Ma non è cosa facile riuscire a raggiungere questi obiettivi …

La vitalità personale è messa a dura prova dal lavoro (che lo si abbia o meno), dalla vita routinaria, dai trasporti, dalle condizioni abitative, dalle caratteristiche ambientali; la varietà di interessi è per lo più orientata e limitata alla fruizione di spettacoli, di oggetti da acquistare; il piacere di agire per un interesse comune è frustrato da una partecipazione a progetti di trasformazione sociale scarsa e poco efficace; la creatività, il fare, fatica a trovare piena espressione, inibita da leggi e regolamenti che ne limitano o impediscono lo sviluppo o indirizzata verso hobby e bricolage. Tutto concorre, nella vita quotidiana, a frustrarne la pienezza, a ingabbiarla, contenerla, incanalarla, lasciando spazio soltanto a piaceri atrofizzati e desideri ridotti al minimo indispensabile. L’inquietudine, l’isolamento e la solitudine dilagano; gli uomini hanno più paura di vivere che di morire.

Tutto ciò si evidenzia con maggiore chiarezza per chi vive in ambiente urbanizzato, città, metropoli o megalopoli che sia. Nelle città la maggior parte delle persone non riesce a vivere come vuole; l’ambiente urbano, così com’è, non permette che nascano e si sviluppino le loro personalità; è inadatto a soddisfarne i bisogni, organizzato com’è a vantaggio di qualcos’altro.
L’attività di ognuno, che sia lavoro, uso del tempo libero, dormire, cucinare, studiare, eccetera, è di norma organizzata in spazi che solo in minima parte possono essere creati, modificati e gestiti da chi li abita. Gli ambienti sono concepiti in modo tale che l’abitare sia funzionale non alla vita di ciascuno, ma agli interessi di persone estranee ad essa. Così la scuola è costruita primariamente per educare alla disciplina, la fabbrica o l’ufficio per creare profitto, i condomini per spezzare la socialità, il cubo in cui viviamo per ammansirci; difficilmente possono essere modificati.

Se si vuole cambiare qualche cosa nella propria casa, si deve chiedere il permesso a qualche autorità. Regolamenti edilizi e burocrazie di ogni genere hanno criminalizzato ogni intervento creativo all’esterno, ma anche all’interno delle abitazioni. Nell’intimo delle mura domestiche la possibilità di gestire lo spazio si limita a poche cose, per lo più intese a isolare all’interno delle quattro mura le persone che ci abitano. L’unico ambito in cui si ha il permesso di organizzare la propria casa è confinato alla disposizione dei mobili, alla tinteggiatura delle pareti: tutto il resto è precluso, dove si abita e come si abita sono sotto stretto controllo.

Le istituzioni economiche, amministrative, politiche, sociali, culturali sono le dirette responsabili della qualità dell’esistenza di ognuno di noi. Il contesto in cui la nostra vita si svolge non ci appartiene; sono loro che organizzano il lavoro, la gestione territoriale, il controllo e la sicurezza, il sapere e la ricerca e, per come funzionano le cose, è sin troppo facile dimostrare come le persone si sentano estranee alla loro visione e ne subiscano le conseguenze. Che le istituzioni facciano parte del problema e non della soluzione è sentimento molto diffuso. In questo i valori del neoliberismo hanno svolto un ruolo decisivo. Applicati in economia hanno fatto in modo che molte prerogative dello Stato si ponessero in ritirata. Certo non quelle legate al monopolio della violenza e della legge, ma per l’educazione, la salute, i trasporti, la comunicazione, le cose sono molto cambiate: il monopolio dello Stato è stato fortemente intaccato e con esso il prestigio di tutto quello che si identifica come pubblico. Il disprezzo verso il ceto politico, la crescente sfiducia nelle istituzioni, il desiderio di essere governati (almeno in Italia) più da un capo che da un parlamento, il proliferare di iniziative legate al territorio che escludono i rapporti con i partiti e i sindacati, la diserzione del seggio elettorale sono solo alcuni esempi che mostrano come questa convinzione non sia affatto circoscritta ad ambiti ristretti.

L’immaginario che accompagnava le istituzioni è stato distrutto dalla politica spettacolo, il “prestigio” del loro ruolo umiliato da lobbisti, portaborse, affaristi; i valori che rappresentano languono o agonizzano in buona compagnia di ideologie inadatte a interpretare la realtà del XXI secolo. Inadatte perchè leggono il presente usando categorie sociali, politiche, culturali che non esistono più se non come riferimento mitico o icona; finite anch’esse nel calderone dello spettacolo, hanno cambiato di senso e di valore. Lavoro, comunicazione, risorse energetiche, concezione dello Stato sono fattori in veloce mutamento, frutto di una globalizzazione di cui si stenta a prendere piena consapevolezza continuando, nell’affrontarli, ad affidarsi a modelli di governo, di trasformazione o di radicalismo non più adatti a interpretare e risolvere alcun problema e tanto meno immaginare un qualunque futuro.

L’indeterminatezza, l’usura, l’inutilità dei mezzi pratici e teorici usati per affrontare la realtà non producono altro che sfiducia, immobilismo e frustrazione. Finora il vuoto è stato colmato da un ethos consumistico tanto sfrenato quanto consolatorio, indirizzato e guidato da un apparato massmediatico di prim’ordine – il vero cardine del sistema – creato appositamente per veicolare la trasformazione di tutti i rapporti sociali in spettacolo e valorizzare come merce ogni aspetto dell’uomo e della natura. Per tutto ciò le istituzioni, ancorché democratiche, ne stanno uscendo a pezzi e anche i governati non stanno bene, impreparati come sono a subirne i colpi o a coglierne gli aspetti positivi.

In ambiente urbano questa disaffezione, questa diffidenza, se da una parte alimenta l’apatia e l’insicurezza, favorendo menefreghismo, disinteresse per il collettivo e per quello che non si considera proprio, dall’altra, per i più lucidi, offre l’opportunità di considerare e affrontare in altro modo l’esistente e, con esso, lo sconquasso provocato dalle nocività abitative, sociali e ambientali. Si sta parlando di quanti, in vario modo e con percorsi diversi, stanno aprendo prospettive di autorganizzazione, di partecipazione diretta, di sperimentazione economica e sociale, di critica, che si contrappongono ai modelli dominanti. Coloro che si muovono in queste logiche, si organizzano in modo orizzontale, distante anni luce dai modelli dei partiti di massa. I loro intenti rinnovatori sono orientati da un immaginario che nulla ha a che vedere con quello che ha guidato l’agire dei rivoluzionari delle generazioni del Novecento. Non c’è alcuna palingenesi totale, né avanguardie che la stimolino; non ci sono più – sempre nell’immaginario – né classi né masse, e neanche un paradiso in terra uguale per tutti; non c’è potere da occupare. La direzione del loro agire, con tutte le difficoltà che ciò comporta, è orientata verso la riappropriazione delle risorse fondamentali per la vita, in senso non metaforico, ma reale.

La partecipazione in prima persona e l’azione diretta più o meno pacifica – con l’apporto di una diversa consapevolezza, capace di modificare e rendere più intense le relazioni tra le persone – guidano l’iniziativa su una scala territoriale forse più limitata, ma più incisiva. Rimettersi alle istituzioni significa accettare che ogni scelta urbanistica fatta e gestita dal ceto politico in nome della collettività e del bene comune si trasformi ineluttabilmente in un ulteriore impoverimento delle libertà dei singoli. Si creano gruppi di individui disponibili a mettersi in gioco, in modo anche molto radicale, su problemi concreti e circoscritti, riguardanti il proprio territorio e la vivibilità quotidiana. Aria, tempo, spazio, piacere, terra, cibo sono sempre più motivo di conflitti e rivendicazioni. La loro mancanza, il loro degrado, l’impossibilità di goderne liberamente stanno rimodellando velocemente i valori, le idee, le paure, le prospettive e con esse i modi e le ragioni stesse del fare politica.

Sono queste le persone che possono reagire e resistere, perchè impostano la lotta contro la privatizzazione e la mercificazione dello spazio come lotta frontale, non necessariamente violenta, ma certamente coerente con il proprio sentire, autorganizzata e solidaristica, orientata a ottenere risultati tangibili e immediati in situazioni che valorizzino le caratteristiche di ognuno, rendano possibile e migliorino la qualità sociale.
Sono le persone che hanno intuito che né il mercato né lo Stato agiscono per l’interesse collettivo – tanto meno per quello dei singoli – e che si stanno orientando verso modelli che li ridimensionano o li escludono. Per loro affidarsi al mercato significa rendersi partecipi della trasformazione delle città in centri commerciali o musei a cielo aperto e chi la abita in polli in allevamento da far sopravvivere in una gabbia luccicante.

Così, in modo più o meno radicale, contro il mercato praticano l’autoproduzione, la riutilizzazione dei materiali, l’autocostruzione, il baratto e il mutuo appoggio organizzato. Introducono il dono nei rapporti di scambio tra le persone; si associano in gruppi di acquisto, in attesa, magari, di potersi organizzare autonomamente creando orti collettivi in città o nelle sue vicinanze. Così, si oppongono alla speculazione edilizia, alla costruzione di edifici che trasformano la città in uno spazio espositivo per il marketing pubblicitario di banche e multinazionali, a infrastrutture ingombranti e inutili. Sono le persone che occupano le case abbandonate per abitarci o condividerne gli spazi con chi vuol frequentarle. Utilizzano le strade, i marciapiedi, le piazze, i muri, i parchi al di là delle convenzioni e dei regolamenti, sottraendole – anche solo momentaneamente – alle automobili, a un’estetica mediocre, a una tristezza uniforme.
Sono le persone che vedono nelle tecnologie – non solo quelle meccaniche, ma anche quelle informatiche, delle comunicazioni, dell’educazione, dell’amministrazione, della finanza, dell’economia – il fattore che nel giro di poche decine di anni ci ha portato dove siamo: danni umani e ambientali catastrofici.

Queste persone vengono da ambienti e culture politiche diverse, non sono ancora unite dalla consapevolezza di un agire comune, ma, come dice Miguel Amorós, il loro «obiettivo irrinunciabile deve essere la liberazione del territorio dagli imperativi del mercato, e ciò significa farla finita con il territorio inteso come territorio dell’economia. Deve stabilire un rapporto di rispetto tra l’uomo e la natura, senza intermediari.
In definitiva si tratta di ricostruire il territorio, non di amministrarne la distruzione.

Questo compito spetta a coloro che nel territorio vivono, non a coloro che ci investono, e l’unico ambito in cui ciò è possibile è quello offerto dall’autogestione territoriale generalizzata, cioè la gestione del territorio da parte dei suoi abitanti attraverso assemblee comunitarie».

Miguel Amoros: LA CITTA' TOTALITARIA. Nautilus, pagine 56, € 3,00
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