Sottrarsi al dominio del mercato

di Paolo Cacciari.

I difficili e faticosi tentativi di creazione di forme di impresa e di economie diverse da quelle dominanti possono incorrere in due opposte possibilità di fallimento: non riuscire a raggiungere una redditività minima vitale, oppure essere catturati dai meccanismi e dalle logiche usuali del mercato. Camminare lungo questo crinale senza scivolare in uno o nell’altro precipizio è la vera arte dell’operatore dell’impresa eco-solidale. Non un mero gioco di equilibrio, di compromessi e di compensazioni, ma un talento particolare, frutto di motivazioni soggettive profonde e di intenzioni che travalicano la stessa intrapresa. Un desiderio di lavoro liberato e utile per sé stessi e per gli altri ...

Alcune notizie di questi giorni confermano la vita incerta dell’economia ecosolidale. Il colosso francese della grande distribuzione Carrefour ha aperto nei suoi supermercati  un  banco di varietà agricole autocertificate, prodotte da associazioni di piccoli contadini biologici, chiamato “Marché interdit” (vedi l’articolo di Teodoro Margarita, Caso Carrefour, semi “velenosi” per il mondo bio, sul supplemento “il Gambero Verde”  del Manifesto). Come se da noi Esselunga facesse un accordo per commercializzare i prodotti dei contadini di Genuino clandestino!

Sempre in questi giorni, proprio il quotidiano il Manifesto, autogestito dai giornalisti in forma cooperativa e appena uscito da una crisi finanziaria gravissima, è stato subissato da proteste dei suoi lettori per aver pubblicato una pagina a pagamento di pubblicità delle associazioni venatorie a favore della caccia. La direzione del giornale ha rivendicato la scelta affermando che quel che conta è non essere influenzati dagli inserzionisti. Produttori di armi, in questo caso. Ci mancherebbe!

Altro caso che fa discutere. Il marchio Fair Trade è da tempo sugli scaffali dei supermercati di tutto il mondo, ma ora il consorzio CTM-AltroMercato ha fatto un nuovo passo stipulando un contratto diretto con Amazon per la distribuzione domiciliare dei suoi prodotti.  Nel comunicato con cui il Consiglio di Amministrazione di CTM informa della decisione i suoi soci e la rete dei negozi affiliati ammette che Amazon “non è un canale ‘neutro’ nella percezione di molti di noi”, ma aggiunge che la politica commerciale impone “una strategia tesa a raggiungere il numero maggiore possibile di consumatori con i propri prodotti”.  In tal modo CTM raggiunge gli obiettivi di “un miglioramento sia della marginalità derivante da questo cliente [Amazon] (particolarmente preziosa in questa fase), sia della possibilità di utilizzare le pagine prodotto [pubblicate sulla piattaforma markerplace] per spiegare in maniera completa ed esauriente i valori dei nostri prodotti”. Da qui il via libera all’uso dei canali di distribuzione non propriamente allineati ai principi etici del commercio equo e solidale.

Potremmo continuare a lungo citando vari casi di ruzzoloni sul pendio scosceso del mercato. Basti pensare a taluni “sistemi di scambio non monetari” (le cosiddette monete alternative), nati come strumenti di difesa delle economie locali dal giogo finanziario ed oggi partecipati da banche commerciali. Basti pensare al biologico. Trent’anni fa i primi contadini pionieri del settore erano considerati trogloditi  anarcoidi che rifiutavano le meraviglie della chimica in agricoltura. Oggi il biologico è prodotto industrialmente e venduto dalla grande distribuzione. Attenzione, quindi, si può morire anche di troppo successo! Tra l’insignificanza e la cooptazione c’è un grande spazio d’azione.

Ciò che dovrebbe caratterizzare l’economia ecosolidale, infatti,  non riguarda solo la qualità dei valori d’uso dei beni e dei servizi prodotti e offerti ai fruitori finali, ma l’intero ciclo produttivo e distributivo. In particolare la differenza con il sistema economico dominato dalle regole della proprietà e del mercato (competizione, profittabilità, massima redditività dell’investimento), consiste nella natura dei rapporti sociali che si instaurano tra i diversi attori lungo tutta la filiera. Si sa, banalmente, che un pomodoro può essere buonissimo e sanissimo, ma prodotto da lavoro schiavo o provenire da terre così lontane da provocare impatti ambientali  insostenibili. Al contrario, paradossalmente, una cooperativa di lavoratori potrebbe fabbricare un carro armato Leopard completamente “biologico”, con lamiere di acciaio riciclato e vernici ad acqua, ma rimarrebbe pur sempre un carro armato.

Il ragionamento non è poi così strampalato se estendiamo lo sguardo alle politiche per l’ambiente e del welfare, come fa papa Bergoglio in un suo splendido discorso pronunciato nella udienza con i rappresentanti del Movimento dell’Economia di comunione: “Non si dirà mai abbastanza: il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare (…). Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno gli ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema raggiungerà il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!”.  Pertanto: “L’Economia di comunione non deve soltanto curare le vittime (…) ma puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico- sociale” (Vaticano, 4/2/2017). La filantropia ha lo stomaco peloso!

L’economia ecosolidale in genere (sia quella produttiva di beni materiali che quella che fornisce servizi di cura, formazione, svago … ) non va intesa come un settore economico tra gli altri, sussidiario, complementare, che copre uno spicchio lasciato libero (spesso solo momentaneamente) dal mercato, ma come qualche cosa di qualitativamente e strutturalmente diverso, potenzialmente alternativo. Questa è la grande ambizione dell’economia solidale: essere un modello alternativo al sistema economico convenzionale. RIPESS, che è la rete intercontinentale dell’Economia solidale, scrive: “L’economia solidale promuove un diverso paradigma di sviluppo, persegue la trasformazione del sistema economico capitalista neoliberista in un altro che pone al centro le persone e il pianeta”. (RIPESS,  Global Vision for a Social and Solidarity Economy: Convergences and Differences. In “Concepts, Definitions and Frameworks”, 2015).

Dalle ricerche sociologiche sulle esperienze di imprese ecosolidali emerge che, fondamentalmente, la molla che fa scattare, in molti giovani e in non pochi adulti maturi, la voglia di intraprendere pratiche di resistenza e di sopravvivenza con un maggior margine di autonomia è il bisogno di svolgere un’attività iscritta in una cornice di senso. Attività attraverso cui le persone cercano di liberarsi dalla oppressione, dalla subalternità, dalla dipendenza economica del mercato. George Caffentzig e Silvia Federici hanno scritto: «Le iniziative di commoning sono qualche cosa di più di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire» (Creare beni comuni e mondi nuovi).

Per quanto fragili, minute e spesso isolate le esperienze di economia solidale sono importanti perché dimostrano che è possibile creare attività e circuiti economici su presupposti etici diversi: esperienze che cambiano in profondità le persone, che creano consapevolezza, responsabilità, impegno. La dimensione psico-spirituale è, quindi, consustanziale dell’attività ecosolidale, decisiva per aumentare le capacità di autodeterminazione e di autostima degli individui. Solo in questo contesto il lavoro può liberarsi e assumere un significato di creatività e dono. Così come l’atto del “consumo” diventa una valutazione introspettiva dei propri bisogni e desideri e partecipazione attiva alla loro soddisfazione. Insomma, tutto un altro modo di rapportarsi a sé, agli altri, alla biosfera, al cosmo (vedi Ina Praetorius, L’economia è cura).

In concreto: chi sono i protagonisti delle economie trasformative, i nostri beniamini che hanno il coraggio di sfidare le regole del mercato? Contadini biologici, permacultori, agricoltori sociali, gasisti e cittadini che si organizzano a sostegno dell’agricoltura contadina transizionisti (gruppi che si riferiscono alle esperienze inglesi delle Transition Town), recuperatori, riciclatori e riparatori (ciclofficine, sartorie ecc.), installatori di generatori di energia rinnovabile (pannelli solari, pale minieoliche ecc.), bioarchitetti, biourbanisti, paseologi, informatici dei software open source, produttori “p2p” (peer-to-peer, rete paritaria), scambisti di tempo e competenze (Banche del tempo), inventori di circuiti e di strumenti di scambio non monetari, editori e librai indipendenti, educatori libertari, animatori di palestre popolari, di scuole di danza, di yoga, operatori delle medicine alternative, operatori del turismo di visitazione (cicloturismo, cammini, alberghi diffusi ecc.), cuoche e cuochi delle cucine di strada, teatranti e artisti di strada, pubblicitari e professionisti pentiti, decrescenti, obiettori della crescita e del consumismo. Altro ancora, alla rinfusa. Nel loro fare danno vita a  imprese autogestite (fattorie, fabbriche recuperate, laboratori artigiani, cooperative, coworking), servizi tecnologici (piattaforme digitali, consorzi tra professionisti), strumenti finanziari (microcredito, crowdfounding, assicurazioni mutualistiche), sistemi di approvvigionamento (piccola distribuzione organizzata, logistica), sistemi di mutuo aiuto (welfare di prossimità, ambulatori, cucine e palestre popolari), gestioni partecipate di beni comuni (immobili in autogestione), abitazioni condivise (proprietà collettive, cohousing, ecovillaggi, social street), cooperative e fondazioni di comunità, ecomusei, forme di cooperazione internazionale decentrata (accoglienza diffusa, commercio solidale legato alla cooperazione internazionale). Molto altro ancora. Ciò che più conta non è la forma giuridica di impresa che viene scelta (impresa sociale non profit, cooperativa, cooperativa di comunità, società semplice o di capitale, associazione di promozione sociale o culturale, ecc.), ma le motivazioni intrinseche che legano i promotori. Certo si tratta di germogli che spuntano qua e là tra le macerie lasciate sul terreno dal susseguirsi delle crisi del capitalismo. Attività spesso microscopiche, a cavallo tra la resistenza e la sopravvivenza, non tutte pienamente consapevoli della loro straordinaria importanza.

Raul Zibechi dal suo osservatorio latinoamericano le definisce “comunità pionieristiche” che creano “piccole arche di autonomia”, ma capaci di indicare alternative replicabili (R. Zibechi, L’arca di Noè, oggi si chiama autonomia, ). Euclides André Mance, filosofo brasiliano, tra i maggiori pensatori delle alternative all’economia di mercato, definisce l’economia solidale come “economia di liberazione”, che “cerca di riorganizzare i flussi economici di  materie prime, prodotti, valori economici, rappresentazioni di valore affinché, con essi, si espandano le libertà pubbliche e private di tutte e di tutti, in forma economicamente sostenibile; allo stesso modo, cerca di contribuire a riorganizzare in queste comunità, flussi di potere in modo collaborativo, democratico, autogestito (…). E, ancora, di contribuire a riorganizzare i flussi di conoscenza, di tecnologia, di sviluppo di capacità attorno alla trasformazione della realtà, per costruire un nuovo sistema economico che assicuri a tutte e a tutti i mezzi economici richiesti per il loro bem viver» (E. Mance, Circuiti economici solidali, tradotto da Solidarius Italia e pubblicato quest’anno da Pioda imaginp). Le economie solidali, a ben guardare, sono economia della buona amministrazione dei cicli vitali, dei “beni comuni” sottratti alle leggi del mercato.

Ma sappiamo bene che il percorso per realizzare questi spazi di autonomia procede in un ambiente socio economico ostile. I condizionamenti esterni spesso sono pesanti e le discriminanti valoriali non sono facili da stabilire. Troppo spesso i tentativi di misurazione attraverso unità fisiche dei beni naturali, dei servizi ecosistemici o dei patrimoni cognitivi immateriali o, più in generale ancora, delle buone relazioni umane, sono funzionali alla loro cattura dentro le logiche di mercato e si traducono nel “prezzare” risorse non rinnovabili, commerciare permessi di inquinamento, privatizzare saperi e conoscenze, finanziarizzare beni comuni. Leggo, ad esempio, sul Dossier Investimenti di “Affari e Finanza” (La Repubblica del 5 febbraio 2018): “Gli investitori hanno manifestato una crescente predilezione per soluzioni di investimento trasparenti, con performaces exra-finanziarie chiaramente misurabili e con un alto grado di sofisticazione nella fase di reporting”. Ciò perché il loro “rendimento si è rivelato addirittura in alcuni casi superiore agli investimenti tradizionali”. Ecco spiegato il boom dei green e social  bond, delle “obbligazioni emesse con il fine di realizzare progetti di sviluppo sociale, vendute anche in Italia da “player primari” come Enel, Hera, Intesa San Paolo, Ferrovie dello stato, Cassa e Depositi. Ecco da cosa deriva il boom delle validazioni etiche, delle certificazioni, dei bollini di qualità, dei manuali sulle procedure di responsabilità sociale e ambientale  delle imprese. Le crescenti sensibilità sociali e ambientali  in vasti settori di consumatori richiedono alle imprese una specifica qualificazione non solo funzionale-utilitaristica degli oggetti e dei servizi immessi sul mercato ma anche attributi di senso, simbolici, valoriali… Così accade che anche l’etica, considerata come “capitale reputazionale”  (brand reputation), viene sussunta nei cicli economici come “valore aggiunto”.

Di fronte ai rischi di cattura e integrazione nelle logiche del mercato anche delle imprese ecosolidali, domandiamoci allora con quali metodi quali-quantitativi sarebbe possibile stabilire se un’economia è davvero meno estrattivista di altre, se un modo di produzione è più collaborativo, se un sistema di scambio è realmente reciproco e paritario, se alla fine del ciclo economico si realizza una valorizzazione sostanzialmente equa delle dotazioni sociali e ambientali “messe al lavoro”. La griglia di valutazione messa a punto dalla federazione delle imprese che aderiscono all’Economia del Bene Comune è sicuramente un buon tentativo. Altri protocolli e carte dei principi sono state elaborate da distretti e consorzi dell’Economia solidale. Ma, probabilmente, ciò che più conta nell’analizzare le esperienze delle economie davvero trasformative sono i processi “immateriali” di soggettivazione che riescono ad attivare. Pratiche di commoning (per usare il neologismo di Peter Linebaugh) o il comunizar (per usare l’espressione di John Holloway) capaci, cioè, di mobilitare azioni collettive, che fanno acquisire alle persone consapevolezza e coscienza, che creano comunalità, comunanze, collettività, commons… ovvero ambiti spaziali-sociali autoregolati, autonormati, all’interno dei quali nascono nuove relazioni intersoggettive, umane, tanto sentimentali quanto istituzionali. Quindi, oltre agli impatti ecosistemici e alla equa redistribuzione delle ricchezze prodotte contano anche le componenti psico-spirituali, etiche ed estetiche.

Ciò detto, non è però pensabile pretendere che ogni attività che ambisce a svilupparsi nell’alveo dell’ecosolidale sia tutta e sempre esente da contraddizioni e priva di contaminazioni dal mondo circostante. Molto spesso si tratta di pratiche promiscue, ibride e ambigue; per una parte inevitabilmente interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un’altra prefiguratrici di diverse modalità di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune. Vanno quindi valutate le diverse forme di interrelazione tra  le economie solidali e dei commons e l’economia di mercato dominante. Va preso atto con realismo che si tratta di una condizione strutturale destinata a permanere fino a quando l’economia eco-solidale non riuscirà a conquistare più consistenti ambiti vitali e forse anche dispositivi istituzionali favorevoli, “protezioni” legislative. Un’economia organica fondata sui beni comuni ha bisogno di regolamentazioni e di controlli indipendenti che tengano conto delle esternalizzazioni, del consumo delle risorse non rinnovabili, della distribuzione del carico fiscale e di mille altre cose regolate dallo stato. In alcuni paesi europei si è cominciato a legiferare sull’Economia Solidale e Sociale con intenti ed esiti diversi. Anche in  alcune regioni italiane, di particolare interesse la legge del Friuli Venezia Giulia del 2017.

In un fondamentale lavoro teorico desunto dall’analisi di alcuni casi studio,  Michel Bauwens e Vasilis Niaros (Value in the Commons Economy: Developments in Open and Contributory Value Accounting, pubblicata dalla Heinrich Böll Stiftung, 2015) formulano un’ipotesi sorprendente e provocatoria. Piuttosto che discutere sul rischio che  il capitalismo catturi i valori creati dalle nuove modalità di produzione della commons economy chiediamoci, al contrario, cosa può accadere se i beni comuni riuscissero ad essere la base di “una nuova economia che nasce all’interno del vecchio sistema”. Si potrebbe allora “pensare a una ‘cooptazione inversa’ (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Può l’emergente economia basata sui commons, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale del sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?”. Si possono, cioè, ipotizzare “all’interno dei confini dell’economia già esistente, flussi di valore più ampi sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e le sue distinte specie di creazione di valore?”. I casi di studio analizzati dagli autori dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tra commons e mercato: nessun rapporto; un doppio sistema di contabilità aperto e compresente; un uso del mercato per valorizzare i commons.

Molte esperienze di casa nostra possono essere lette all’interno di questo stesso schema. Prendiamo il caso già molto analizzato del nuovo pastificio Astra Bio a Casteldidone creato dalla storica cooperativa di contadini biologici Iris che raggruppa 14 aziende agricole. Un progetto da 7 milioni di euro in gran parte raccolti in un paio d’anni grazie alla emissione di azioni mutualistiche da mille euro cadauna già sottoscritte da 450 soci. Le azioni hanno un rendimento fisso dell’1 o del 2 per cento annuo e danno diritto ad  una certa quantità di prodotti del pastificio. Presto, attraverso la creazione di una Fondazione patrimoniale, gli edifici del nuovo pastificio (che comprendono un ristorante, un museo e una scuola per l’infanzia) diventeranno patrimonio comune non divisibile e non alienabile. In questo caso la raccolta di flussi finanziari realizzata all’esterno (ma in grande parte mobilitati da fornitori e consumatori abituali) serve a patrimonializzare il common, il pastificio bene comune.

Come si vede le strade per trasformare i modi di produzione, le relazioni economiche, i comportamenti e gli stili di vita individuali sono davvero infinite. É possibile immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di autonomia, attività attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore d’uso, comunità intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche… che possono preparare e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi e cunei, resistenze e diserzioni… comunque utili a formare un bagaglio di esperienze per non farci trovare impreparati al momento buono. Il collasso del loro sistema possa diventare la nostra festosa liberazione!

Tratto da: https://comune-info.net/2018/03/sottrarsi-al-dominio-del-mercato/

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