Partire dal carcere per il cambiamento?



di Stefano Borgna.

Alla Casa di Reclusione di Quarto si è tenuto, lo scorso anno, un corso professionalizzante per "Addetto al Giardinaggio e Ortofrutticoltura" iniziato a marzo e conclusosi con l'esame finale a settembre. All'interno della struttura sono presenti aree verdi con terreni coltivati ad orto e frutteto. Essendo io uno dei collaboratori del corso (di cui è responsabile l'ente formativo Casa di Carità Arti e Mestieri) ed anche uno dei componenti del Gasti (Gruppo di acquisto solidale di Asti) ho avuto la possibilità di organizzare un acquisto collettivo in estate, in piena produzione di pomodori e melanzane ...

Al termine del nostro abbondante acquisto, riflettendo su come comunicare agli 11 detenuti che hanno partecipato al corso il gradimento del frutto del loro lavoro, si è deciso di raccogliere una quota aggiuntiva al concordato prezzo dei prodotti, da utilizzare per l'acquisto di libri dedicati ai temi dell'agricoltura sostenibile e un testo a ogni detenuto è stato così consegnato poco prima di Natale. Un gesto per permettere, anche se in forma limitata (ce ne rendiamo conto), di proseguire la formazione degli 11 "corsisti".

Quei pomodori e quelle melanzane hanno dato l'occasione al Gasti di lanciare un piccolo sguardo su una realtà del territorio che ancora non conoscevamo. Parlare di carcere - anche con la cautela necessaria di chi ne conosce pochissimo la vera realtà - crediamo aiuti, comunque, a scalfire quel silenzio di cui spesso le strutture carcerarie soffrono e che tocca tanto i detenuti quanto il personale. Anche del personale, sì, perché anche di loro e delle condizioni in cui quotidianamente lavorano non sappiamo granché.

Infatti ben poco - come collettività - conosciamo del sistema penitenziario in generale. I media, abitualmente pronti sulla cronaca giudiziaria (anche se non sempre con la corretta visione), spengono i riflettori su ciò che segue le condanne e, più in generale, su un'urgente revisione del sistema italiano che sembra non riscuotere l'interesse e l'attenzione necessari. Una particolare disattenzione che, purtroppo, fornisce un conseguente alibi irresistibile alla nostra disattenzione.
Senza lasciarsi trasportare da facili e sterili sentimentalismi, sarebbe doveroso considerare quel luogo, cioè il carcere, come qualcosa che ci riguarda e da molto vicino. Un primo passo per affrontare certe nostre ipocrisie e, finalmente, cercare risposte a scomodi quesiti.

L'alternativa è continuare a cedere alla tentazione quotidiana di non voler sentire e vedere. È un po' come voler nascondere a noi stessi e agli altri aspetti personali imbarazzanti. E imbarazzanti possono essere certe domande come ad esempio: “In quali condizioni si vive e si lavora dentro un carcere?” oppure “Cos'è mancato perché una persona sia lì, dentro ad una cella?”.
Imbarazzanti perché ci chiamano in causa tutti: la prima domanda se non altro per la nostra noncuranza e la seconda per la responsabilità dietro alle piccole e grandi scelte della nostra vita.

Ad esempio un gesto che può sembrare piccolo e magari ripetuto quotidianamente, un'abitudine come un acquisto può promuovere un'agricoltura e, quindi, un'economia rispettosa della dignità delle persone e dell'ambiente.
Oppure il medesimo gesto può finanziare ogni giorno un'economia dello sfruttamento, irrispettosa della dignità umana e dell'ecosistema mantenendo e, come sta avvenendo in Italia da anni, incrementando le disuguaglianze.
Questa seconda scelta è una condanna per un territorio, piccolo o grande che sia, e, in modo altrettanto tremendo, significa soffocare iniziative di chi, soprattutto giovane agricoltore, crede nel cambiamento.

Le disuguaglianze e la povertà, in tutte le sue forme, favoriscono i ricatti. Ricatti ai quali si riesce a non cedere solo se, al di là delle condizioni materiali, c'è una cultura del bene comune che guida le scelte. Occuparci di tutto ciò è sempre più difficile, immersi come siamo nei ritmi frenetici di uno stile di vita che non è l'unico possibile e che abbiamo scelto.
Alcuni dicono sia imposto, ma tale espressione è solamente un altro dei nostri alibi e chi ha già iniziato coraggiosamente a metterlo in discussione può testimoniarlo.
Con la velocità aumenta la distrazione, ma aumenta anche l'urgenza di affrontare certe questioni. Questo e molto altro impongono anche una riflessione sul giudizio: quel comodo e sofisticato meccanismo della mente per fuggire dalle nostre paure, soprattutto verso realtà che non conosciamo.

Buono o Cattivo?” è il gioco che nasce dal giudizio, un gioco a cui tutti noi giochiamo. E in cui nessuno di noi vince.

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