Aktion T4 e il “Programma di eutanasia” nazista al “Processo dei medici di Norimberga”

di Domenico Massano.

Nel 1947, 75 anni fa, si concluse il processo dei medici nazisti a Norimberga. In occasione del giorno della memoria vale la pena ricordare quanto scrissero a riguardo i tre componenti della Commissione di Osservatori che vi parteciparono, e riflettere sull’attualità di alcune loro considerazioni “perché non basta aver paura che certe cose possano ripetersi; bisogna anche capire che quelle cose sono state fatte da uomini”...

Questa raccolta di documenti fu pubblicata per la prima volta 10 anni fa. Sono testimonianze che erano e restano spaventose. Il tempo non potrà mai attenuarne l’orrore”[1]. Con queste parole inizia la seconda edizione del testo in cui Alexander Mitscherlich, con Fred Mielke, si propose di descrivere, analizzare e testimoniare, quanto accadde nel corso del processo dei medici nazisti, iniziato a Norimberga il 9 dicembre 1946 e terminato il 19 luglio 1947. Tra i crimini contestati ai 23 imputati (20 i medici), vi erano anche quelli legati al cosiddetto “Programma di eutanasia”, in cui, tra il 1939 e il 1945, trovarono la morte circa 200.000 persone con disabilità o con disturbi psichici (oltre 70.000 nell’ambito della sola Aktion T4). Tutti gli imputati si dichiararono non colpevoli. Al termine del processo sette di loro furono assolti, sette furono condannati a morte, gli altri a pene detentive di diversa durata.

Alexander Mitscherlich era il Presidente della Commissione di Osservatori inviata dall’Ordine dei medici della Germania Occidentale per il processo. Della Commissione facevano parte anche il dottor Fred Mielke e la psichiatra Alice Ricciardi von Platen. Nessuno di loro aveva ancora raggiunto i 40 anni e, probabilmente, ci si aspettava da parte loro un diplomatico silenzio nello stilare il resoconto delle vicende processuali. Silenzio che, presumibilmente, avrebbe aperto loro le porte verso una brillante carriera sanitaria. I tre incaricati decisero, invece, non solo di riportare fedelmente la cronaca del processo, ma di contribuire attivamente a quel grande percorso di chiarimento delle responsabilità che ritenevano “avrebbe dovuto esserci nel nostro paese (la Germania ndr)”[2], ma che, secondo quanto amaramente dovevano costatare alcuni anni dopo, non ci fu.

Alice Ricciardi von Platen fu la prima a scrivere nel 1948 il libro “Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente”, i suoi colleghi, un anno dopo, documentarono il loro lavoro nel testo “Medicina disumana. Documenti del Processo dei medici di Norimberga” (testo preceduto nel 1947 da un breve opuscolo documentativo). Entrambi i libri passarono non solo inosservati, ma fu come non fossero mai apparsi. La loro sorte “è avvolta ancora oggi nell’oscurità”[3], e il loro contenuto “fu rimosso dalle nostre coscienze”[4].

L’analisi che Mitscherlich offre di questa rimozione nell’introduzione alla seconda edizione del suo lavoro nel 1960 (13 anni dopo il termine del processo), è la seguente: “E qui è opportuno soffermarsi un po’ sulla sorte (finora assai singolare) di questo libro e dell’opuscolo che lo precedette, 'Das Diktat der Menschenverachtung'. […] Uscito l’opuscolo, cominciarono a giungerci proteste di alcuni studiosi il cui nome figurava in quei documenti. […] Ma nessuno di coloro che avevano lavorato nell’apparato hitleriano inserì nella sua difesa la semplice frase: Mi dispiace. Qui si profilava già quello che si potrebbe definire l’isolamento dei colpevoli, cioè il riversare tutte le colpe sulle spalle dei criminali patologici, altro aspetto di quell’ostinazione a non voler vedere e capire che a mio avviso, se continuerà, segnerà la fine della nostra esistenza storica”[5].

Porre l’accento sulla totale assenza di un “Mi dispiace”, credo che non solo sia centrale nell’analisi di quanto accaduto, ma sia soprattutto indicativo della persistenza, anche in seguito, di un certo atteggiamento che, come ben sottolineava l’autore, continuava a non riconoscere nelle vittime persone di egual valore. E’ significativo notare, inoltre, come questo risolvere le responsabilità collettive nella condanna di pochi colpevoli “patologici”, non è accettato da Mitscherlich: “È innegabile che la dittatura di Hitler fu criminale, tanto al vertice quanto al gradino più basso, quello degli aguzzini, ignoranti o istruiti che fossero. Di un’oscurità sconcertante è la funzione svolta dal grande strato intermedio; ma è chiaro che senza la complicità di questo, senza la sua tolleranza e indifferenza, i progetti delittuosi non avrebbero mai potuto tradursi in azione. […] Dei circa 90.000 medici che esercitavano in Germania in quell’epoca, circa 350 si macchiarono di crimini. In sé, la cifra è alta, soprattutto se si pensa alle dimensioni dei delitti; ma in rapporto a tutto il corpo dei medici resta solo una piccola frazione: circa un trecentesimo. […] Ma il nocciolo della questione è un altro. Se 350 furono coloro che commisero direttamente dei crimini, c’era tutto un apparato che li mise in condizione ed offrì loro la possibilità di degenerare. Essi non uccisero pazienti che avevano in cura. […] L’analisi del caso patologico particolare è necessaria, naturalmente, ma non sviscera il rapporto tra causa ed effetto, non sviscera la catena di motivi che rende possibile simili delitti”[6].

Mitscherlich, a distanza di oltre un decennio dalla fine del processo, aveva il preoccupante sentore che ancora non fosse stato colto l’insegnamento e il monito legato a tali crimini, che non potevano essere semplicemente relegati in un passato ormai superato e chiuso: “Ché questa documentazione non riguarda storia morta, ma avvenimenti verificatisi nei nostri tempi. […] E perciò non basta aver paura che certe cose possano ripetersi; bisogna anche capire che quelle cose sono state fatte da uomini che, quando vennero al mondo, non erano mostri, ma spesso in maniera del tutto normale, grazie a doti normali, arrivarono a farsi un’istruzione e ad occupare posti importanti nella società, prima di narcotizzare e paralizzare le facoltà umane che avevano acquisito e di risprofondare nelle bassezze degli istinti bestiali distruttivi. […] Ma ci è parso necessario far forza al nostro amor proprio, cioè alla stima che cerchiamo di avere di noi stessi, e tentare di individuare il rapporto che c’è tra questi fenomeni di abbrutimento di paralisi della coscienza e la nostra società civile. Alla base di queste azioni c’è tutta una gamma di atteggiamenti che vanno dalla perversione congenita e dalle peggiori forme di degenerazione alla tolleranza servile, quella forma minore disumanità che da un lato è caratterizzata dall’egoismo dell’istinto di conservazione e dalla vile sopravvalutazione di superiori, e dall’altro da una capacità enorme, che sconfina nel virtuosismo, di tacitare la voce della coscienza”[7].

L’aver riconosciuto la preoccupante attualità di alcuni degli aspetti più “comuni” e “normali” degli atteggiamenti e dei comportamenti, che furono sfondo e, soprattutto, presupposto del “Programma eutanasia”, rappresentava per Mitscherlich un potenziale pericolo di riproposta, magari in modi e forme diversi, di tali crimini e violenze.

Preoccupazioni condivise anche dalla collega della Commissione Alice Ricciardi von Platen che, con uno sguardo forse maggiormente rivolto al futuro, nell’introduzione del suo testo del 1948 ammoniva: “La dimensione raggiunta dall’Eutanasia negli istituti tedeschi dimostra come, una volta intrapresa la strada dell’annientamento delle cosiddette vite indegne, non ci siano più limiti: sostenuti da considerazioni di carattere ideologico e materiale si annienta la vita anormala sino al punto in cui non si è annientata la vita stessa. […] Nell’epoca dell’interesse collettivo, evidentemente, il diritto del singolo alla tutela statale non è più un fatto scontato. Ma se le tendenze distruttive dovessero avere il sopravvento, l’interesse collettivo si trasformerebbe in minaccia di sterminio nei confronti degli individui malati ed indifesi. Finchè l’umanità vivrà, solo una parte degli individui sarà conforme alla norma dell’essere umano medio”[8].

Mitscherlich, Mielke e Ricciardi von Platen, sono stati testimoni del processo dei medici nazisti a Norimberga, del clima in cui si svolse, del freddo disappunto che accolse i loro resoconti e successivamente hanno vissuto un lungo periodo di isolamento da parte della comunità scientifica tedesca. Alcuni loro ammonimenti mantengono intatta tutta la loro attualità soprattutto in relazione al perdurare della tendenza a presentare la vita e il rispetto dei diritti delle persone con disabilità, con disturbi psichici, anziane, ... quasi esclusivamente in termini di costi per la società (con tutti i rischi che questo comporta in periodi di crisi economica e/o nel corso di un’emergenza come quella attuale) e portano in primo piano la necessità di continuare a studiare, a ricordare questi tragici fatti, per riconoscere, prevenire e contrastare il rischio del riemergere di logiche discriminatorie e delle loro pericolose ricadute umane, sociali e politiche.

NOTE:

[1] MITSCHERLICH A., MIELKE F., Medicina disumana. Documenti del “Processo dei medici” di Norimberga, ed. it. 1967 (I ed. 1949, II ed. 1960), Feltinelli Editore, Milano, p. 5

[2] Ibidem, p. 12

[3] FREI N., Carriere. Le elite di Hitler dopo il 1945, 2003, Bollati Boringhieri, Torino, p. 22.

[4] RICCIADI VON PLATEN A., Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, ed. it. 2000 (I ed. 1948, II ed. 1993), Le Lettere Editore, Firenze, p. 5

[5] MITSCHERLICH A., MIELKE F., Medicina disumana. cit., p. 14

[6] Ibidem, p. 13

[7] Ibidem, p. 6

[8] RICCIADI VON PLATEN A., Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, cit. pp. 10-11

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