Giù le mani dalla terra e dal mare

«Con il land grabbing le multinazionali si sono accaparrate nel mondo 86 milioni di ettari negli ultimi 6 anni, 5 volte la superficie dell'Italia». Così esordisce Eric Holt-Giménez, direttore di Food First, tra i relatori della conferenza al Salone del Gusto e Terra Madre che ha affrontato appunto questo fenomeno. Nel mondo le vittime di land grabbing sono molto diverse tra loro, tutte potenziali alleate. Per lottare contro l’accaparramento: «Bisogna creare dei forti movimenti sociali e cercare di cambiare le leggi. Questa l’unica soluzione».

Dati recenti sul fenomeno arrivano da Grain.org, che ha documentato 416 investimenti di land grabbing dal 2006 al 2012, che hanno interessato quasi 35 milioni di ettari di terreno in 66 Paesi destinati tutti alla produzione di colture alimentari. La raccolta dei dati fornisce un'istantanea netta di come l’agribusiness sia stato in rapida espansione in tutto il mondo, a partire dalla crisi alimentare e finanziaria del 2008, e come tutto ciò stia rubando la produzione di cibo dalle mani degli agricoltori e delle comunità locali.

L'Africa è l'obiettivo primario dei land grabbers, ma sono ingenti anche gli investimenti in America Latina, Asia ed Europa dell'Est, a dimostrazione che questo è un fenomeno globale. Chi sono i land grabbers? La maggior parte provengono dal settore agroalimentare, ma ci sono anche società finanziarie e fondi sovrani,  responsabili di circa un terzo delle offerte.

Investitori europei, soprattutto da Regno Unito e Germania, e asiatici, da Cina e India, rappresentano circa i due terzi dei dati del land grabbing. Ovviamente anche gli Stati Uniti sono in corsa, in cima alla lista in 41 casi, mentre gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita con 39 casi.

Il Mozambico è uno dei Paesi che maggiormente sta subendo il land grabbing, con un totale di 25 investimenti da parte di ben 13 nazioni (Brasile, Cina, Francia, India, Italia, Libia, Mauritius, Portogallo, Singapore, Sud Africa, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti) di cui 21 portati a termine e 5 in via di definizione per un totale di 1.583.149 ettari di terreno espropriati ai contadini.

«Abbiamo una legge che difende la terra, ma non è osservata» dice Ana Paula Tauacale, vicepresidente dell'UNAC, Unione Nazionale di Contadini del Mozambico. Insieme a una rete di cooperative e associazioni ha fatto partire una petizione contro ProSavana, progetto che ha come obiettivo di trasformare un’area di 14,5 milioni di ettari, 145mila km², in un territorio di scorribanda per imprese nippo-brasiliane interessate alla monocoltura da esportazione. «Noi vogliamo portare avanti la nostra agricoltura familiare tradizionale e non abbiamo nessuna terra da regalare alle multinazionali».

Il concetto fondamentale di resistenza sul campo è stato espresso da Themba Chauke di Landless Peoples Movement del Sud Africa. «La resistenza si fa sul campo ma anche con l’educazione dei contadini, insegnando loro che è possibile coltivare sementi sane e creando una rete di scambio tra gli agricoltori». La lotta deve continuare anche nell’opposizione alle scelte sbagliate dei governi, che troppo spesso svendono le terre in nome del profitto. «Vogliamo continuare a essere contadini, indigeni e persone affezionate alla terra», afferma María Luisa Albores González della cooperativa Tosepan Titataniske del Messico. «Molto spesso siamo intimoriti di fronte a queste difficili battaglie, ma sappiamo che vale la pena combattere perché non siamo soli e, anzi, abbiamo qualcuno che ci sostiene».

Non solo land grabbing, ma ocean grabbing, l’attacco ai nostri mari. «La privatizzazione delle zone di pesca, dovuta all’ossessione della crescita economica dei Governi, ha permesso il proliferare del fenomeno», dichiara Naseegh Jaffer, segretario generale del World Forum of Fisher Peoples. «È ora non solo di parlare di queste cose, ma di agire, e tutti noi possiamo fare la differenza. È sufficiente cambiare il nostro stile di vita e abbracciare una filosofia più ecosostenibile per arrivare all’obiettivo finale: la sovranità alimentare dei popoli».
Giù le mani dalla terra e dal mare

«Con il land grabbing le multinazionali si sono accaparrate nel mondo 86 milioni di ettari negli ultimi 6 anni, 5 volte la

superficie dell'Italia». Così esordisce Eric Holt-Giménez, direttore di Food First, tra i relatori della conferenza al

Salone del Gusto e Terra Madre che ha affrontato appunto questo fenomeno. Nel mondo le vittime di land grabbing

sono molto diverse tra loro, tutte potenziali alleate. Per lottare contro l’accaparramento: «Bisogna creare dei forti

movimenti sociali e cercare di cambiare le leggi. Questa l’unica soluzione».

Dati recenti sul fenomeno arrivano da Grain.org, che ha documentato 416 investimenti di land grabbing dal 2006 al

2012, che hanno interessato quasi 35 milioni di ettari di terreno in 66 Paesi destinati tutti alla produzione di colture

alimentari. La raccolta dei dati fornisce un'istantanea netta di come l’agribusiness sia stato in rapida espansione in

tutto il mondo, a partire dalla crisi alimentare e finanziaria del 2008, e come tutto ciò stia rubando la produzione di

cibo dalle mani degli agricoltori e delle comunità locali.

L'Africa è l'obiettivo primario dei land grabbers, ma sono ingenti anche gli investimenti in America Latina, Asia ed

Europa dell'Est, a dimostrazione che questo è un fenomeno globale. Chi sono i land grabbers? La maggior parte

provengono dal settore agroalimentare, ma ci sono anche società finanziarie e fondi sovrani,  responsabili di circa un

terzo delle offerte.

Investitori europei, soprattutto da Regno Unito e Germania, e asiatici, da Cina e India, rappresentano circa i due

terzi dei dati del land grabbing. Ovviamente anche gli Stati Uniti sono in corsa, in cima alla lista in 41 casi, mentre gli

Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita con 39 casi.

Il Mozambico è uno dei Paesi che maggiormente sta subendo il land grabbing, con un totale di 25 investimenti da

parte di ben 13 nazioni (Brasile, Cina, Francia, India, Italia, Libia, Mauritius, Portogallo, Singapore, Sud Africa,

Svezia, Regno Unito e Stati Uniti) di cui 21 portati a termine e 5 in via di definizione per un totale di 1.583.149 ettari

di terreno espropriati ai contadini.

«Abbiamo una legge che difende la terra, ma non è osservata» dice Ana Paula Tauacale, vicepresidente dell'UNAC,

Unione Nazionale di Contadini del Mozambico. Insieme a una rete di cooperative e associazioni ha fatto partire una

petizione contro ProSavana, progetto che ha come obiettivo di trasformare un’area di 14,5 milioni di ettari, 145mila

km², in un territorio di scorribanda per imprese nippo-brasiliane interessate alla monocoltura da esportazione. «Noi

vogliamo portare avanti la nostra agricoltura familiare tradizionale e non abbiamo nessuna terra da regalare alle

multinazionali».

Il concetto fondamentale di resistenza sul campo è stato espresso da Themba Chauke di Landless Peoples

Movement del Sud Africa. «La resistenza si fa sul campo ma anche con l’educazione dei contadini, insegnando loro

che è possibile coltivare sementi sane e creando una rete di scambio tra gli agricoltori». La lotta deve continuare

anche nell’opposizione alle scelte sbagliate dei governi, che troppo spesso svendono le terre in nome del profitto.

«Vogliamo continuare a essere contadini, indigeni e persone affezionate alla terra», afferma María Luisa Albores

González della cooperativa Tosepan Titataniske del Messico. «Molto spesso siamo intimoriti di fronte a queste difficili

battaglie, ma sappiamo che vale la pena combattere perché non siamo soli e, anzi, abbiamo qualcuno che ci

sostiene».

Non solo land grabbing, ma ocean grabbing, l’attacco ai nostri mari. «La privatizzazione delle zone di pesca, dovuta

all’ossessione della crescita economica dei Governi, ha permesso il proliferare del fenomeno», dichiara Naseegh

Jaffer, segretario generale del World Forum of Fisher Peoples. «È ora non solo di parlare di queste cose, ma di agire,

e tutti noi possiamo fare la differenza. È sufficiente cambiare il nostro stile di vita e abbracciare una filosofia più

ecosostenibile per arrivare all’obiettivo finale: la sovranità alimentare dei popoli».

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