Si può recuperare un suolo coperto da pannelli fotovoltaici ?



Abbiamo chiesto ad un gruppo di pedologi (studiosi del suolo) se un terreno agricolo occupato da pannelli fotovoltaici può tornare fertile e produttivo. La risposta è: forse, ma con molta difficoltà, tempo e denaro. Ancora una volta, per approfittare di facili vantaggi immediati lasciamo una pesante eredità alle generazioni future ...

Un essere umano è sempre in perpetua trasformazione. Attraverso cibo, acqua e aria riesce a mantenere la sua specificità e adattarsi all’ambiente in cui vive. Le sue cellule, tessuti, organi si riproducono, adattano, modificano continuamente. Lo stesso dicasi per tutti gli altri organismi che interagiscono tra loro e si mantengono all’interno dello stesso ecosistema, ivi compresi i suoli, che ricordiamolo sono organismi viventi.

Le installazioni fotovoltaiche su terreni agricoli occupano in Italia superfici più o meno vaste. Queste strutture sono previste per una durata di 20-25 anni. Possono rendere economicamente all’agricoltore più di una vera e propria attività agricola/rurale.

Gli studi esistenti sull’impatto delle installazioni fotovoltaiche sui suoli non sono ancora definitivi e portano a conclusioni ancora non condivise. Molte variabili vi sono interconnesse come ad esempio la possibilità di continuare a lavorare o coltivare tra i pannelli, di lasciarvi crescere della vegetazione da raccogliere o da lasciare sul posto, etc. D’altronde solo in rari casi sono trascorsi 20-25 anni dalle installazioni e ancora meno sono i casi in cui, dopo tale periodo, si è deciso di smantellare i pannelli per ritornare a produzioni agricole o forestali.
Dal punto di vista della scienza del suolo, tutto ciò che altera i ritmi biologici dell’ecosistema induce – direttamente o indirettamente – modifiche profonde ai suoli che saranno non solo meno atti alla produzione, ma andranno incontro a possibili alterazioni non sempre pienamente recuperabili.

In effetti un impianto di pannelli fotovoltaici influisce sui suoli: togliendo sole, riducendo luce, modificando vita e tipo di vegetazione, riducendo accumulo di sostanza organica, limitando vita biologica e microbiologica, condizionando e limitando scambi gassosi, modificando penetrazione e circolazione dell’acqua, ecc…

Questi “inconvenienti”, seppure gravi perché perpetuati nel tempo, non “uccidono” completamente il suolo come nel caso della cementificazione o della impermeabilizzazione.

Una volta rimossi i pannelli e le loro strutture di sostegno, l’area potrebbe essere “recuperata” a fini agricoli, ma … è come obbligare un essere umano a vivere in una cella: niente sole, poca luce, poca aria, poca acqua, poco cibo e tra i propri escrementi. Dopo 20-25 anni è possibile che quell’essere umano sia ancora vivo, ma per ritornare a esser “produttivo” avrà bisogno di flebo, cibo, ricostituenti e tante cure e attenzioni da parte dei suoi “liberatori”. Lo stesso è per il suolo, una volta liberato dai pannelli e dalle loro basi/sostegni, per alcuni anni (quanti?) dovrà essere soggetto a cure particolari che non potranno avvalersi delle sole normali pratiche agronomiche.
“Tecnicamente” si può recuperare un suolo coperto da pannelli fotovoltaici, ma in realtà si continua ad operare in maniera insostenibile: creiamo maggiori costi economici, ambientali e sociali e li lasciamo in eredità alle generazioni future.

I nostri figli, nipoti e pronipoti si confronteranno non solo con il catastrofico debito pubblico, ma soprattutto sulla carenza di beni comuni esauribili quali i suoli e il territorio. Non abbiamo alternativa: dobbiamo proteggere i suoli e rispettare le loro specifiche funzioni.
In Italia una scelta sostenibile è di imporre e facilitare nelle zone rurali la possibilità di “piantare” pannelli fotovoltaici solo su tetti di case coloniche, magazzini, stalle, capannoni.

Si eviterebbe in questo modo di continuare a tirarsi martellate sulle dita con la speranza di poter qualche volta sbagliare.

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