Quando non vedremo levarsi un fil di fumo ...

di Massimiliano Bosco, ingegnere e curatore scientifico dei lavori del coordinamento comitati Val Tiglione e Via Fulvia.
ImageNelle discussioni sugli inceneritori in Asti abbondano gli argomenti pro e contro. Se però non si citano la fonte e i dati di prima mano si rischia di assistere ad un contraddittorio tra atti di fede, piuttosto che tra analisi circostanziate. Se consapevolezza e competenza fossero una priorità assoluta, gestire i materiali post consumo non sarebbe problematico, né degenererebbe in una contrapposizione tra partiti del si e del no ognuno dei quali si fida dei rispettivi esperti.
Per questo aggiungerei almeno due elementi ...

1) La cosiddetta “nuova generazione” inquina meno? Per stabilirlo confrontiamo un vecchio forno da 40.000 tonnellate/anno limitato per legge a 30 milligrammi per metro cubo di polveri e un nuovo impianto da 250.000t limitato a 10mg. A prima vista inquinerebbe meno il forno più recente, ma la risposta corretta è diversa, perché il limite di legge è sempre riferito alla concentrazione, ovvero alla massa di inquinante per metro cubo. Quindi occorre sapere quanti metri cubi d’aria escono dal camino, poi moltiplicare per la concentrazione e ottenere così la massa di inquinante immessa nell’ambiente.

Per avere un dato di prima mano si può scaricare dal sito dell’AMSA di Milano la dichiarazione ambientale dell’inceneritore Silla 2 [1], che nel 2006 ha bruciato 440.733 tonnellate di rifiuti, emettendo in atmosfera 411 tonnellate di ossidi di azoto (gli NOx delle centraline) con una concentrazione media di 140mg per metro cubo, peraltro inferiore al limite di legge di 200mg (dir. 2000/76/CE recepita in Italia col D.Lgs. 133/2005). Proviamo a dividere la massa totale di NOx emessa per la concentrazione dichiarata, ripetiamo l’operazione anche per gli altri inquinanti e osservando i numeri ottenuti ricaviamo che il forno in un anno di esercizio ha bisogno in media di 2,5 miliardi di metri cubi d’aria per la combustione. Diciamo in media perché il forno viene regolato un po’ come le nostre vecchie stufe di casa, munite di una valvola per regolare il tiraggio del camino, che serviva a regolare la quantità di ossigeno in camera di combustione, perché non tutti i materiali bruciano allo stesso modo e ciò vale a maggior ragione per i rifiuti. Infatti dovremmo trovare in ogni tabella delle emissioni la percentuale di ossigeno residuo nel camino per capire se i fumi siano eventualmente “diluiti” con aria secondaria che riduce significativamente le concentrazioni.
Poiché la quantità d’aria necessaria è direttamente proporzionale alla massa di rifiuti bruciata ed è influenzata dalle regolazioni, avremo bisogno di circa 6200 metri cubi d’aria per bruciare una tonnellata di rifuti.

Non fidandosi si dovrebbero cercare altri riscontri: in uno studio finanziato dalla regione dell’Ile de France sull’incenerimento [2] si trova un valore di 5800 metri cubi per tonnellata di rifiuti bruciata, inferiore del 6-7%, ma compatibile, poiché negli impianti di ultima generazione un leggero eccesso d’aria migliora le prestazioni. Nello stesso documento si trovano i valori di emissioni relativi agli impianti vecchi e in generale dei forni parigini prima dei lavori di ammodernamento resi obbligatori dal recepimento della direttiva 2000/76/CE sugli inceneritori.

Confrontando le due fonti si ricava che un forno da 40.000 tonnellate/anno di prima generazione a norma di legge è autorizzato ad emettere fino a 45Kg di polveri al giorno, mentre il nuovo inceneritore da 200.000 tonnellate/anno può rilasciare fino a 75Kg/giorno a norma di legge.
Con l’introduzione dei filtri a maniche e degli elettrofiltri, tipicamente avremo dei valori più bassi, nell’ordine di 5Kg contro 8Kg/giorno circa.

Buone notizie dunque?
Non proprio, perché il particolato più pericoloso è proprio quello più fine e per giunta invisibile a occhio nudo: ecco perché non vediamo il fumo nero uscire dal camino. Inoltre un buon filtro non ha solo un costo iniziale elevato, ma diventa rapidamente inefficiente se non sottoposto ad una manutenzione corretta.
La verità è che in generale il forno avrà un impatto proporzionale alla massa di rifiuti trattati. Perché non si parla di tonnellate/anno? Perché non si ragiona sul singolo inquinante che ha effetti diversi in base al diametro del particolato e alla composizione? Inoltre è scientificamente corretto confrontare solo grandezze omogenee, escludendo a maggior ragione tabacco e traffico.


2) Se per assurdo si accettasse l’impatto sulla salute, si deve calcolare la sostenibilità economica tra 10 anni. Se il proponente col CIP6 raddoppia il fatturato a pari costo di conferimento (132 euro/t), l’affare non conviene ad altri, né alla finanza pubblica.
Se dal punto di vista di un proponente si sa già tutto [3], altrettanto non si può dire per i costi opportunità, per cui facciamo un esempio: se recupero un imballaggio di plastica, il CONAI me lo paga 262 euro/tonnellata. Se la brucio mi costa 132 euro/tonnellata, ma se la rivendo ai consorzi risparmio i 132 euro e ne ricavo 262.

Non differenziare a sufficienza, o peggio ancora conferire il c.d. “tal quale”, significa perdere un valore di 394 euro/tonnellata: in ATO2 si producono annualmente 783.000 tonnellate di rifuti, di cui circa il 10% è plastica, per il 40% costituita da imballaggi.
Il recupero degli imballaggi di plastica è un affare che vale circa 30.000 tonnellate, ovvero un po’ meno di 12 milioni di euro, pari al fatturato annuo del forno, al netto del CIP6.
A questo punto rimane da decidere che fare della plastica non ritirata dai consorzi, che quando non si recupera alimenta la c.d. frazione residuale, tipicamente avviata in discarica, all’incenerimento o al coincenerimento.

Esistono processi industriali in grado di riciclarla completamente, come ad esempio l’estrusione: si prende la plastica non recuperabile altrimenti (per non perdere i 262 euro ad esempio), la si sminuzza, la si scalda a 180-200°C e la si passa in una macchina simile ad un grosso tritacarne. Con pochi passaggi si ottiene un granulato da destinare allo stampaggio, per fabbricare dissuasori per il traffico, pannelli per isolamento acustico, elementi di arredo urbano, e così via.
Svantaggi? La concorrenza diretta e indiretta con incenerimento e coincenerimento, in quanto la materia prima per entrambi i processi è il combustibile derivato da rifiuti (CDR): bruciando 200.000 t/anno di CDR, mancherebbero oltre 100.000t di plastica riciclata dalla frazione che i consorzi non ritirano.
L’impianto per produrla costa pochi milioni, contro i 200 di un termodistruttore a recupero energetico (c.d. “termovalorizzatore”).

Vendere plastica riciclata è un affare e una soluzione in grado di eliminare la discarica di servizio per ceneri e scorie. Inoltre è una soluzione compatibile con le politiche di riduzione e recupero, perché un estrusore si può spegnere e riaccendere quando si vuole, diversamente dal forno che una volta avviato deve bruciare per 20 anni 200.000 tonnellate/anno di CDR con potere calorifico prestabilito da contratto, per cui non conferire plastica comporta il pagamento di sostanziose penali, perché gran parte del potere calorifico del CDR è dato proprio dalla plastica.

Incenerire significa che ogni Kg di nuova plastica per sostituire quella bruciata ci fa importare 2Kg di petrolio, il cui prezzo, da 40 a 130$ al barile in 10 anni, dà un’idea dei costi occulti che ci attendono. Inoltre si dovranno coprire con denaro pubblico i debiti di Kyoto, 22 euro/t di CO2.
Bruciare una tonnellata di plastica produce 1,5t di CO2, ovvero una multa di 33 euro che darà un costo annuo di 2-3 milioni. E’ solo questione di tempo.
Ecco perché la Francia ha optato per l'efficienza energetica e ridurrà del 20% entro il 2015 incenerimento e coincenerimento.
Gli Stati Uniti non costruiscono più impianti dal 1996 perché, abolito l’equivalente del CIP6, non sono concorrenziali.
La discarica di Hiriya (Tel Aviv) serve 3 milioni di utenti e ricicla.

Noi potremmo evitare i forni e guardare avanti. Energia da rifiuti? Quanto costa davvero? Quali alternative praticabili reimpiegando i 200 milioni del forno? L’amministrazione provinciale ha iniziato un piano energetico che potrebbe rispondere al quesito, c’è ancora parecchio lavoro da fare e sarebbe un peccato sprecare i risultati sinora ottenuti.


Per saperne di più:
[1]  Dichiarazione ambientale AMSA – Inceneritore Silla 2 di Milano
http://www.amsa.mi.it/Contenuti/PDF/DICHIARAZIONE_AMBIENTALE_Silla2_%20230507.pdf
[2] L’incinération des déchets en Île-de-France : Considérations environnementales et sanitaires
http://www.iaurif.org/fr/savoirfaire/etudesenligne/incineration_dechets/incineration_dechets.pdf
[3] G. Ferrante – PPP-Project Finance: Case Study – modelli di partenariato pubblico-privato per il finanziamento delle infrastrutture
http://www.utfp.it/docs/interventi/febb_06/PF_Case%20study_NAPOLI%202005.pdf

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