Per un nuovo Movimento Antinucleare

di Marco Bersani, Attac Italia.
ImageNell'analisi del portavoce italiano del movimento internazionale Attac, il percorso popolare che portò alla vittoria del referendum per il “NO” al nucleare nel nostro paese, senza costruire una vera politica energetica alternativa.
Una base di conoscenze e di stimoli essenziali per porre nuove basi alle sfide prossime che il futuro pare volerci offrire, dopo le scelte del nuovo Governo nazionale di riproporre un articolato piano energetico fortemente canalizzato sull'uso del nucleare di “nuova generazione” ...

Vinto il referendum, non la battaglia per un’altra politica energetica.
La schiacciante vittoria ai tre referendum antinucleari del novembre 1987 è stata il frutto finale di un’ampia mobilitazione sociale che, a partire dalle prime grandi manifestazioni dell’estate del 1977 a Montalto di Castro, ha saputo coniugare le rivolte delle popolazioni, nei cui territori erano state localizzate le centrali nucleari, con la capacità di far diventare la lotta contro il nucleare una mobilitazione nazionale.
La congiunzione tra il nascente movimento ecologista e i movimenti della protesta studentesca e sociale degli anni ’70 del secolo scorso, ha contribuito a costruire un’opposizione di massa alla scelta nucleare, facendo divenire ciascuna esperienza e cultura, che vi prendeva parte, il motore di un’ancor più ampia aggregazione.
Una protesta dal basso, che ha sparigliato le carte nei partiti e nell’arco parlamentare, e che, con la sperimentazione diretta delle devastanti conseguenze dell’incidente di Chernobyl –divieto di consumo dei prodotti degli orti, divieto per le fasce deboli della popolazione di uscire all’aria aperta etc. - ha trasformato il referendum in una cacciata a furor di popolo del nucleare dal nostro Paese.

Qualcuno potrebbe considerare come, a fronte del nuovo tentativo in corso di riaprire la stagione nucleare in Italia, sia sufficiente riprodurre lo schema precedente per vincere una seconda definitiva volta.
Tuttavia, perché davvero si costruiscano le condizioni di una nuova mobilitazione di massa contro la riapertura del nucleare in Italia, alcune considerazioni critiche su quella esperienza –ed in particolare sui suoi esiti successivi - devono essere fatte senza reticenze.
D’altronde, il solo fatto che ventuno anni dopo il referendum, i fautori del nucleare siano di nuovo in campo, con un largo fronte economico, politico e massmediatico e con argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle di allora, segnala come questi due decenni rischino di essere trascorsi invano.
La prima affermazione che mi sento di fare è che lo straordinario movimento, che ha costruito e vinto il referendum, ha perso la battaglia successiva perché non è riuscito a costruire – e ad imporre -  un’altra politica energetica, radicalmente alternativa a quella dominante.

Se si considera come, tra tutti i Paesi europei, solo in Italia si era riusciti a costruire, attraverso una paziente tessitura durata per più di un decennio, una così vasta alleanza politica e culturale, la miseria dei risultati ottenuti successivamente al referendum appare ancor più drammatica.
Già, perché se il referendum chiuse sostanzialmente la partita nucleare, l’avvio su tutto il territorio nazionale di un’ altra politica energetica, basata sul risparmio e l’utilizzo delle fonti rinnovabili, a partire dal solare, non riuscì, non solo a decollare, ma neppure a divenire quota significativa della produzione di energia nel nostro Paese.
Al contrario di altri Paesi europei che, benché privi di una pressione sociale paragonabile per ampiezza a quella italiana, hanno invece attivato importanti percorsi in questa direzione.
Certo, il 1991 è anche l’anno che, dopo la definitiva chiusura della centrale di Caorso e della riconversione della centrale di Montalto di Castro, vide l’approvazione di due leggi – n. 9 e n. 10 - che riguardavano l’uso efficiente dell’energia e la promozione delle fonti energetiche rinnovabili, con relativa posta in bilancio di 2.600 miliardi di lire per il triennio ’91- ’93.
Qualcuno – troppi - pensarono che fosse fatta.

Troppi allentarono la stretta, sottovalutando come il terreno dell’energia fosse uno di quelli su cui il conflitto dovesse essere esteso ed ampliato il più possibile, poiché metteva in gioco esattamente la contraddizione ecologica e il controllo delle risorse, ovvero la sempre più palese insostenibilità del modello di sviluppo capitalistico.
Come non mancò di ricordare brutalmente il contemporaneo avvio della prima aggressione all’Iraq con la guerra del Golfo.
Mentre sul terreno della resistenza territoriale e della costruzione di una forte mobilitazione di rilevanza nazionale, il movimento antinucleare italiano poteva dire di avere espresso le sue energie e culture migliori, sulla costruzione di una costante mobilitazione per ottenere un altro Piano Energetico Nazionale e, per costruire, in ciascuna realtà territoriale, pratiche sociali ed istituzionali che avviassero concretamente un altro modo, democratico e pulito, di produrre energia, non seppe ottenere molto.
Consentendo ai grandi gruppi industriali legati alle produzioni di energia da combustibili fossili di continuare a dettare legge e a determinare le scelte politiche ed economiche del paese.
E alla lobby del nucleare di ritornare oggi prepotentemente in campo.


Aprire la battaglia per la riappropriazione sociale dell’energia.
Un secondo elemento che va considerato riguarda il mutato contesto, tra oggi e allora, all’interno del quale si cerca di riaprire la stagione nucleare in Italia.
Già, perché gli anni ’90 del secolo scorso non sono in realtà passati invano. Hanno fatto danni.
Il primo e più importante dei quali è stato
l’avvio della stagione delle liberalizzazioni e della privatizzazione dell’energia.
Una stagione che ha visto i governi di centro-sinistra – ed in particolare il primo governo Prodi - svolgere un ruolo principe in quella ai più propagandata come “la necessaria modernizzazione del Paese”;  il segnale più evidente di come le politiche liberiste abbiano attraversato e sedimentato –e continuino oggi a farlo-  tutte le culture politiche e sociali, rendendo il contesto odierno decisamente più arretrato.
Decenni di propaganda contro l’inefficienza del pubblico e sulle indiscutibili capacità del privato, pur non trovando riscontro nella realtà – tutte le ricerche effettuate sulle privatizzazioni dimostrano il loro fallimento (ovviamente dal punto di vista dell’interesse collettivo, non certo dei destini dei capitali finanziari in Borsa) - hanno consentito l’abbassamento delle barriere culturali sui diritti sociali e collettivi, facendo diventare l’ideologia della competizione la vera cifra dei tempi presenti.

Qualcuno potrebbe obiettare che la questione della gestione pubblica o privata dell’energia c’entri poco – penso a molta “sinistra” e ai molti ambientalisti e Verdi che su questo terreno hanno fatto, consapevolmente o meno, da ‘Cavallo di Troia’- e che, al contrario, uno degli ostacoli maggiori all’avvio del nucleare sarà proprio dovuto alla liberalizzazione dei mercati elettrici che non consentono un diretto intervento dello Stato, in quanto violazione delle regole della concorrenza.
Il paradosso è interessante e con dei divertenti risvolti.
Già, perché vedere i colossi del mercato elettrico e i loro padrini politici che, dopo aver sbandierato per decenni ad ogni piè sospinto l’ideologia del libero mercato, si trovano a costruire pressioni fortissime, affinché lo Stato assuma un ruolo di direzione della politica energetica (ovviamente solo perché, dati i costi esorbitanti, nessuno di loro si arrischierebbe ad investire sul nucleare) dimostra come il re sia ancora una volta nudo.

Ed è vero che, in un mercato liberalizzato, una zeppa ai nuclearisti potrà venire dall’Unione Europea, che potrebbe aprire infrazioni su ogni intervento statale a favore della riapertura della stagione nucleare, condannandolo come “aiuto di Stato”.
Ma a parte il fatto che le “garanzie” dell’Unione Europea lasciano il tempo che trovano, e che, grazie al mercato liberalizzato, l’Enel ha potuto iniziare il proprio shopping europeo, ciò che va rigettata è la totale subalternità culturale e politica di questa posizione.
Perché, in realtà, il vero disastro operato dalle liberalizzazioni è costituito dall’aver trasformato l’energia da bene comune a merce, ovvero di aver consegnato un bene collettivo nelle mani di un mercato il cui unico motore è il profitto.

Se oggi un nuovo movimento antinucleare rischia di avere molte più difficoltà a ricostruire un’alleanza di massa, è perché la stagione delle liberalizzazioni ha sdoganato l’ideologia della crescita, del massimo consumo di risorse, dell’ossessione di dover produrre sempre maggiore energia, costruendo un consenso popolare all’idea che la riduzione dei consumi corrisponda ad un impoverimento delle condizioni materiali ( condizione che una fascia sempre più vasta della popolazione sta drammaticamente sperimentando, ma per motivi affatto diversi e, sotto alcuni aspetti, perfino opposti).
D’altronde, in un mercato dell’energia liberalizzato, qualsiasi appello a politiche di risparmio energetico – oggi la vera priorità politica, sociale e ambientale - o all’efficientamento dei processi energetici esistenti si rivela come pura e inefficace testimonianza :
perché, infatti, il mercato dovrebbe puntare al risparmio dell’energia se è proprio dal massimo consumo della stessa che ricava il proprio profitto?
L’Italia è il paese che ha il margine di sovrapotenza energetica annuale più alto d’Europa (capacità elettrica installata pari a 88.300 MW a fronte di una richiesta di 55.600 MW, dati 2006), e contemporaneamente ha il sistema energetico meno efficiente (sotto il 50% di utilizzo) e le tariffe più alte (+ 17-26/Mwh).

Di fatto, un sostanziale paradiso per i capitali finanziari investiti e un inferno per gli interessi collettivi ad un altro modello energetico.
E se la prima battaglia antinucleare è stata successivamente persa per non essere riusciti ad imporre piani energetici alternativi, oggi, con il mercato liberalizzato, i piani energetici –buoni o pessimi che siano- semplicemente non esistono, né possono essere rivendicati.
Non solo.  Il proliferare di impianti – dalle centrali a carbone alle turbogas, dai rigassificatori agli inceneritori/termovalorizzatori - contro i quali sono ormai decine le rivolte territoriali nel nostro paese, deriva esattamente dall’aver consegnato i processi strategici in mano al mercato, dentro il quale, essendo l’imperativo categorico “business is now”, ciascuna lobby cerca di piazzare più impianti possibili, indipendentemente dalle necessità  e senza alcuna programmazione.
Di conseguenza, un nuovo movimento antinucleare non potrà avere come unico obiettivo il ‘no’ al nucleare, ma dovrà rimettere in discussione con forza le politiche di liberalizzazione dell’energia, rivendicandone la ripubblicizzazione e la conseguente costruzione di piani energetici alternativi a tutti i livelli territoriali, e collegando la propria mobilitazione, sin dall’inizio, con tutte le lotte già in campo contro gli impianti ‘energetici’ e le loro nocività.


Energia “pulita, territoriale e democratica” contro “termica, centralizzata e militarizzata”.
Le alternative al nucleare ci sono e ci sono sempre state.
Studi scientifici e dossier ecologisti ne hanno ormai da decenni dimostrato la fondatezza.
E, tuttavia, un nuovo movimento antinucleare credo debba situare il proprio orizzonte di mobilitazione su una più profonda radicalità dei propri obiettivi.
Non si tratta “solo” di redistribuire dentro un quadro dato le diverse fonti di produzione d’energia, puntando ad un percorso di riduzione delle fonti inquinanti e di graduale transizione.
Tempi e modi della realizzazione di una politica energetica ‘altra’ saranno decisi dai rapporti di forza culturali, politici e sociali che si creeranno, ma da subito è bene che
un nuovo movimento antinucleare lanci con forza la propria totale alterità all’attuale modello energetico : verso una società che produca meno energia contro una società che fa della dissipazione il proprio motore economico e verso una società che produca energia “pulita, territoriale e democratica” contro una società che produce energia “termica, centralizzata e militarizzata”.

Solo la definizione di uno scenario radicalmente altro può suscitare immaginario, ricchezza di culture e speranze collettive in grado di rimettere in campo una nuova e altrettanto ampia mobilitazione per battere il nucleare.
L’alterità qui descritta significa per un nuovo movimento antinucleare battersi per un’energia pulita, ovvero basata esclusivamente sul forte risparmio, sul totale efficientamento dei sistemi energetici e sull’esclusivo sviluppo delle fonti rinnovabili, a partire dall’energia solare.
Significa nel contempo opporsi non solo alla reintroduzione del nucleare, ma all’avvio di ogni nuovo impianto basato sull’energia da combustibili fossili – e agli impianti di cosiddetta termovalorizzazione da rifiuti -  sia perché inquinanti, nocivi e dissipatori, sia perché ritardanti nei confronti del nuovo scenario da costruire.

Le fonti rinnovabili – e solo loro -  garantiscono la costruzione di un modello energetico non centralizzato nei grandi impianti – e in possesso dei grandi monopoli industriali e finanziari - bensì decentrato e autogestito territorialmente, ad alta efficienza e bassa dissipazione.
Un modello energetico che richiama una società democratica e una gestione partecipativa, socialmente controllata e orientata, in netto e radicale contrasto con un modello sociale militarizzato, cui la proliferazione di impianti nucleari – a maggior ragione negli anni dell’ossessione del pericolo terrorista - esplicitamente aspira e che consegna un potere assoluto e coperto dal segreto ai pochi detentori dei capitali finanziari e delle tecnologie industriali.


Energia, acqua e rifiuti: un’unica battaglia.
Un nuovo movimento antinucleare che punti alla riappropriazione sociale dell’energia, deve incontrare come
primi naturali alleati quei movimenti che già da anni nel nostro paese si battono per la ripubblicizzazione dell’acqua e per una diversa politica dei rifiuti che approdi allo scenario “rifiuti zero”.
Ci sono elementi sostanziali che convalidano la necessità di una tale percorso.
Basti pensare agli enormi consumi di acqua necessari alla tecnologia nucleare che, solo per fare un esempio, vedono la Francia consumare il 40% della propria acqua potabile per il raffreddamento delle centrali nucleari.
Oppure pensando a come il più irrisolto dei problemi di tutta la tecnologia nucleare sia la produzione di scorie tossiche e altamente radioattive con capacità contaminanti per tempi lunghissimi.
Ma, aldilà delle connessioni specifiche, la costruzione di un’alleanza tra queste diverse esperienze consentirebbe di prendere di petto e in forma complessiva l’intera questione delle risorse naturali, oggi più che mai centrale, sia di fronte alla contraddizione ecologica non più eludibile, sia rispetto agli scenari geo-politici mondiali.
Porre con forza la riappropriazione sociale dell’acqua, dell’energia e dei rifiuti significa considerare le risorse naturali come necessarie alla vita delle persone e pertanto da rendere indisponibili al mercato. Significa altresì poterne disporre la cura e la conservazione per le generazioni future, e sulla base di questo poter mettere radicalmente in discussione l’intero modello economico e produttivo capitalistico.
Non a caso il continente che è stato ed è tuttora protagonista di una stagione di grandi cambiamenti sociali e politici – l’America Latina - ha visto e vede la questione della riappropriazione sociale delle risorse naturali al centro dell’agire dei movimenti ed elemento motore della costruzione di un altro modello sociale.
 
No nuke, no war.
La inestricabile connessione tra nucleare civile e militare, anzi la genesi e la riproduzione del primo dalle viscere del secondo comporta che, pur essendo differente il punto di osservazione e di partenza, i percorsi delle realtà del pacifismo e quello di un nuovo movimento antinucleare debbano necessariamente incontrarsi.
Se l’esistenza stessa del nucleare militare non può trovare alcuna giustificazione, la interdipendenza tra l’uso militare e il cosiddetto uso civile dell’energia nucleare obbliga ad un percorso che metta insieme la complessità e non cerchi illusorie e menzognere separatezze.
D’altronde, seppur le comparazioni numeriche abbiano poco senso, oggi il pericolo nucleare dovuto al suo uso militare continua ad essere quantitativamente molto più elevato dello stesso, pur pericoloso e nocivo, uso civile.

Otto anni di guerra globale permanente hanno reso il mondo più insicuro, più conflittuale, più socialmente impoverito e politicamente instabile, provocando un rilancio esponenziale delle spese destinate agli armamenti, la destinazione quasi esclusivamente militare della ricerca scientifica, la proliferazione delle armi nucleari e di distruzione di massa.
Senza un chiaro stop al nucleare militare, la riapertura del nucleare civile sarà destinata ciclicamente  a riaprirsi, sia come necessario –per le lobbies industrial/militari- ammortamento dei costi di investimento e produzione, sia come processo di costante penetrazione politica e culturale dentro le società.
Un nuovo movimento antinucleare dovrà quindi vedere come propri fondamentali interlocutori tutte le reti e i movimenti che si battono contro la guerra, per il disarmo e per la chiusura delle basi atomiche e militari.
 
Democrazia e futuro.
Mentre il mondo è entrato nel terzo millennio, e il modello neoliberale cerca di imporre  inesorabilmente la propria ‘modernità’, le lotte delle popolazioni per un futuro diverso lo riportano paradossalmente all’antichità, agli inizi della filosofia e del pensiero occidentale.
Aria, acqua, terra e fuoco erano i principi primi e l’origine del mondo per i filosofi presocratici.
Aria, acqua, territorio ed energia sono i beni comuni, necessari alla vita delle persone, per cui oggi si battono le popolazioni in difesa della salute, dell’ambiente e del diritto al futuro.
Una lotta senza quartiere tra chi vuole la guerra globale permanente per il controllo delle risorse mondiali e intanto prepara, attraverso le grandi istituzioni finanziarie internazionali, il prossimo accaparramento delle future materie prime, e chi pensa che i beni comuni siano un inalienabile patrimonio collettivo, il cui accesso deve essere universalmente garantito e la cui conservazione per le generazioni future deve essere socialmente curata.

E’ una lotta fra il mercato come unico regolatore sociale e la riappropriazione di uno spazio pubblico come luogo dei beni comuni e dei diritti sociali, fra il “pensiero unico” indiscutibile e i molti pensieri socialmente confrontati e condivisi.
Una lotta dal cui esito dipende la ricostruzione di una democrazia sostanziale e la stessa possibilità di un futuro.
Fermare il nucleare sarebbe un buon modo di intraprendere il cammino.

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