Cinghiali, affari e disobbedienza

di Leonardo Animali.

L’approvazione dell’emendamento di Tommaso Foti (Fratelli D’Italia) alla Legge di Stabilità, sull’estensione della caccia al cinghiale nelle aree protette e nelle città, ha avuto un’eco molto forte, tanto che, alla fine, è stato paradossalmente l’argomento più riportato dai media della prima Finanziaria del Governo Meloni.
Per non cadere nel blitz di Foti, i deputati della Commissione Bilancio della Camera avrebbero avuto tutti gli strumenti conoscitivi. Basterebbe infatti che, relativamente alla proliferazione dei cinghiali in Italia, i parlamentari avessero letto la relazione scientifica proposta in audizione alla Camera qualche mese fa dal prof. Andrea Mazzatenta, uno dei massimi esperti a livello europeo di fauna selvatica...

La motivazione, blandita a giustificazione di questo provvedimento, e di tutta una campagna mediatica e politica che è in corso da anni, sarebbe quella della sicurezza. Ma è noto che un conto è la “percezione di insicurezza” che possono avvertire le persone, altra è la fattualità reale di situazioni in cui la sicurezza non è garantita.

Allora verrebbe da chiedersi, per primo, se a livello di percezione sia più pericoloso avvistare uno o più cinghiali, o trovarsi a convivere nello stesso condominio con dei vicini che, per il fatto di andare a caccia, hanno un armadio di fucili e munizioni nello sgabuzzino.

A Fabriano, nelle Marche, capita spesso che qualche cinghiale si aggiri in città, considerato che è a ridosso di un territorio montano e boschivo. Però poi, in questa città, le Forze dell’Ordine, qualche settimana fa, intervenute a “rasserenare” la più classica delle liti condominiali, per ragioni di precauzione e sicurezza, hanno sequestrato tutto l’armamentario di caccia che uno dei condomini un po’ irascibile, deteneva in casa.

Ma il tema di fondo politico è questo: come mai una minoranza estrema di cittadini italiani, circa settecentomila (in progressiva e costante diminuzione, oltre che di età media molto alta), che praticano la caccia, ha da sempre un’influenza così forte e incisiva sulla politica? Sia quella nazionale, che quella territoriale. E che copre tutto l’arco costituzionale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, fatta eccezione per i Verdi (non a caso, all’emendamento Foti, non sono seguite proteste, tranne quelle di Angelo Bonelli; l’ex-missino di Piacenza, in fondo, con la sua iniziativa notturna, ha fatto un piacere quasi a tutti).

Un condizionamento così forte, che ogni tentativo di iniziativa referendaria per l’abrogazione della legge che regola la caccia, è sempre fallito. Sia per il mancato raggiungimento del quorum nei Referendum del 1990 e 1997, sia per la mancata raccolta delle firma necessarie per un nuovo referendum nel 2021.

Tra l’altro, questa attività che molti, forzosamente, qualificano anche come sportiva e ricreativa, nel corso degli anni ha perso rovinosamente iscritti; tanto che, per fare un esempio, la Giunta di destra della Regione Marche (dove vivo), tra le prime iniziative assunte all’indomani del suo insediamento nel 2020, è stata quella di esonerare i nuovi giovani cacciatori dal versare per i primi due anni la tassa di concessione regionale (l’età media dei cacciatori nelle Marche è oltre i sessantacinque anni).

Come mai allora la politica è così supina alla categoria dei cacciatori e alle loro potenti associazioni? Quelle riconosciute sono sette (come le “sorelle” multinazionali del petrolio): Federcaccia, ANUU, Libera Caccia, Enalcaccia, Arci Caccia (“i compagni della natura” recita il logo, buffo no?!), Italcaccia e Ente Produttori Selvaggina.

Di certo la caccia non è una attività per poveri, di chi per condizioni di indigenza è costretto a trovare espedienti per mangiare, ma il suo esercizio annuale è molto costoso per ogni cacciatore.

Da uno studio dell’Università “Carlo Bo” di Urbino, commissionato dall’Anpam (associazione nazionale produttori armi e munizioni), affiliata di Confindustria, ultimo dato del 2019, la spesa totale sostenuta ogni anno dai cacciatori ammonta a 2.816.971.170 euro comprese armi e munizioni. Nello specifico sono state considerate le seguenti voci di spesa: armi (quota ammortamento), munizioni, abbigliamento, cani (acquisto, mantenimento, veterinari, ecc..), accessori (es.: richiami, buffetteria, coltelli, GPS), kit pulizia arma, tasse e concessioni, trasferimenti in Italia, pernottamenti e viaggi all’estero, piccoli consumi (pranzi, bar, ecc.). Considerato poi l’indotto generato, stimato in 2.388.595.266 euro, si arriva a 5.205.566.436 euro; all’incirca lo 0,4 del PIL italiano.

Sempre secondo l’Università, il numero totale di addetti attivati dalla caccia, sia per prodotti che per servizi, è pari a 36.826.

Considerato che nel 2019 i cacciatori erano di più, circa 760.000, si può stimare che ogni cacciatore spenda mediamente quasi 4.000 euro all’anno per la sua “passione”.

La risposta quindi è molto semplice: la caccia è un enorme business del nostro Paese. Per primo elettorale: i voti dei cacciatori sono contesi da tutti gli aspiranti Deputati, Consiglieri Regionali e Sindaci (e fino al 2013, prima dell’abolizione dell’elezione diretta dei vertici dell’Ente, soprattutto dai Consiglieri Provinciali, in quanto l’attività venatoria era una delle funzioni più importanti esercitate dalle Province). Ed in molti casi, non è scandaloso e provocatorio parlare di vero e proprio voto di scambio. Con passaggi di mano di contributi elettorali non dichiarati, oltre che dei tradizionali “santini”.

Nell’indotto economico intorno alla caccia, vanno poi considerati tutti i traffici più o meno leciti dell’allevamento dei cani da caccia, e l’attività commerciale della ristorazione italiana (che in particolare riguarda i cinghiali).

Relativamente poi ai cani da caccia, molte di queste povere bestie, spesso finiscono nei canili (quando va bene), o peggio sotto una macchina. Perché tanti di questi “grandi custodi della natura”, che si dicono da soli essere i cacciatori, quando vedono che nella fase di addestramento un cucciolo non è “capace” di fare il cane da cerca e riporto, lo abbandonano senza tanti complimenti in mezzo alla strada, o ai bordi di una zona rurale non abitata (a me è capitato diverse volte di raccogliere poveri cagnolini da caccia che vagavano senza meta affamati da giorni).

Ma la cosa più esilarante, rimane proprio il fatto che i cacciatori si credono davvero una sorta di ambientalisti antelitteram, che con il loro girovagare sparando in mezzo ai campi o ai boschi, fino all’impallinare persone a ridosso delle abitazioni, monitorano il territorio e si occupano della sua salvaguardia. Mentre invece, è lecito chiedersi se una persona, non più vivente nel Paleolitico (in cui non erano state ancora inventate l’agricoltura e l’allevamento), ma nell’Antropocene, che si sveglia di notte per andare a sparare a delle creature viventi per puro divertimento (o come dicono “per passione”), sottraendo molto tempo alle relazioni familiari e amicali, possa essere un individuo con seri disturbi della personalità, di cui dovrebbe prendersi cura i servizi sociali territoriali. Mettendo a serio repentaglio per primo la propria vita, e quella degli altri. Ogni stagione venatoria, infatti, sono molti gli incidenti di caccia, in cui il più delle volte i cacciatori si “fucilano” tra di loro, o che sparano ferendo anche mortalmente persone che non c’entrano niente, che si trovano per caso, o per residenza, nei paraggi delle loro battute di caccia. I dati dell’Associazione Nazionale Vittime della Caccia (e già, in Italia, dopo le associazioni di vittime di stragi, terrorismo e mafia, abbiamo anche questa…) ci certificano che solo nella stagione venatoria 2021/2022, ci sono stati 24 morti (di cui 12 non cacciatori) e 66 feriti (di cui 23 non cacciatori).

Immaginate cosa potrebbe diventare questo tragico bollettino, quando la caccia al cinghiale, come approvato nel testo della Legge Finanziaria il 24 dicembre, verrà aperta tutto l’anno, anche nelle zone urbane abitate e nelle Aree Protette (dove per attività diverse del tempo libero, circolano tantissime persone, con tanti bambini).

Proprio nelle Marche, nel fermano, qualche giorno prima di Natale, un anziano cacciatore è stato ucciso da un proiettile vagante, partito durante la battuta dalla sua squadra di “cinghialari”, in cui era presente anche il figlio. Ma già l’anno scorso, a Camerino, il 2 dicembre è stata sfiorata la tragedia, quando un proiettile vagante partito da una carabina per cinghiali, ha colpito uno scuolabus che stava portando a casa i bambini dalla scuola.

Un proiettile da carabina per cinghiali, qualora non dovesse centrare il bersaglio diventando vagante, ha una gittata di qualche chilometro; e le battute di caccia, vengono effettuate da squadre di cacciatori formate da più di venti elementi, che si muovono tutti assieme contemporaneamente come un reparto militare. Figuratevi lo scenario.

Nelle squadre di “cinghialari”, ci sono tante persone equilibrate, ma anche altrettante socialmente disturbate, spesso anche minacciose e intimidatorie (durante la mia esperienza di Consigliere della Provincia di Ancona dal 2007 al 2012, ho avuto modo di conoscere questo mondo molto bene). Persone che magari la sera prima si frequentano a una cena di un club filantropico o a teatro, e che poi, il mattino dopo, finita la battuta di caccia, si ritrovano a compiere, con le carcasse dei cinghiali abbattuti, sanguinolenti riti scaramantici, tipici delle primitive comunità precolombiane del Centramerica (basta entrare in qualche pagina o gruppo Facebook di cacciatori, per vedere foto e video agghiaccianti, postati per autoesaltazione; ma anche i profili personali abbondano di immagini agghiaccianti).

Ricordo di aver conosciuto un tranquillo, diligente, ed educato funzionario di banca, che poi, appena dismesse giacca e cravatta, diventava un esaltato cacciatore di giorno, e anche bracconiere di notte.

Le squadre sono molto “pittoresche” anche nelle loro denominazioni: storiche, mitologiche, politiche. Ad esempio, una si chiama “Aquila Nera”; considerato che in natura l’aquila non è nera, ma nella simbologia politica è nera quella sulla bandiera della Repubblica Sociale Italiana, si possono fare delle riflessioni.

Rispetto a quella ai volatili, la caccia al cinghiale è un business più forte, per movimentazione elettorale ed economica. Il cinghiale “rende”. A tutti. Ai politici, ai cacciatori, ai ristoratori (ai quali le carni arrivano il più delle volte a seguito di scrupolosi controlli sanitari, ma anche “sottobanco”). Più cinghiali ci sono, meglio è. Tanto che questo, fa saldare innaturali e pessime alleanze tra associazioni venatorie e organizzazioni agricole. Riguardo proprio all’emendamento approvato nella Manovra, immediatamente sono usciti i comunicati stampa di plauso al Governo sia da parte di Coldiretti, che della CIA. Dino Scanavino, che è stato il Presidente Nazionale della CIA fino alla primavera 2022, in un’intervista rilasciata a un quotidiano nazionale nel 2021, avanzò persino la proposta di concedere una sorta di gettone/indennità statale ai cacciatori, per il loro encomiabile impegno di difensori dell’agricoltura italiana.

È provato che spesso sono stati, e sono, gli stessi cacciatori a immettere di nascosto nottetempo esemplari di cinghiali nei territori, ai fini della loro biologica moltiplicazione per l’attività di caccia. E i capi immessi, sono spesso frutto di incroci con i suinidi, provengono dall’Est Europa, e non hanno zoologicamente niente a che fare con il cinghiale autoctono dell’Appennino italiano; che pesa da adulto meno di un quintale, mentre nei nostri territori, spesso oramai vengono avvistati e abbattuti capi che pesano oltre i due quintali.

Clamorosa è la storia della zona del Parco del Monte Conero, nelle Marche. Lì il cinghiale non è mai stato una specie autoctona, ma ora è diventato predominante perché immesso dai cacciatori anni fa ai fini dell’esercizio venatorio, prima ancora che fosse istituita l’area protetta regionale.

Paradossalmente l’unica misura seria ed efficace per diminuire la proliferazione dei cinghiali, sarebbe l’abolizione della caccia. Ma ci sono per primo, specie in Europa, esperienze che non ricorrono alle carabine, ma alla scienza.

Il cinghiale non è poi così stupido. In zone dove l’attività di caccia viene intensificata di molto, oppure se in quel territorio mutano per antropizzazione, le caratteristiche naturali del paesaggio, gli ungulati si spostano e migrano in altre zone.

Nel fabrianese, nelle Marche, la realizzazione del raddoppio della superstrada 76 (il cosiddetto progetto Quadrilatero), in quasi vent’anni di lavori ha occupato ampie zone boschive e rurali con enormi cantieri rumorosi, illuminati a giorno anche di notte, e le nuove arterie stradali hanno ridotto di molto il paesaggio naturale. Qui si è potuto constatare che questi processi hanno indotto la fauna selvatica a spostarsi da alcune zone in altre più tranquille, dove in precedenza c’era molta meno presenza di popolazione animale. E la riduzione di paesaggio naturale, ha significato anche una minor quantità di acqua e di cibo, tanto che i cinghiali da anni si sono spinti per fame all’interno della zona urbana della città di Fabriano (se poi, come è avvenuto per anni, in quella città, il ciclo della raccolta differenziata, viene organizzato con i sacchetti messi fuori i portoni per tutta la notte, è come se gli ungulati avessero a disposizione un servizio ristorazione take away…)

Altra balla che è stata raccontata in questi giorni, in cui i cinghiali sono stati i veri protagonisti della Manovra di Bilancio, è che nelle Aree Protette (parchi e riserve) non c’è alcun controllo delle popolazioni della fauna selvatica, a partire dal cinghiale. Mentre, al contrario, nella stragrande maggioranza dei parchi, sono anni che vengono attuati piani di selezione, con abbattimenti programmati e fatti da agenti della Polizia Provinciale, o da singoli selecontrollori altamente formati. Ma questi soggetti, differentemente dalle squadre dei cinghialari, che ora si vorrebbero impiegare anche in città tutto l’anno, non creano né molto business economico, né tantomeno elettorale.

Da anni, ad esempio, nel Parco Naturale Regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, centinaia di abbattimenti selettivi annui, vengono addirittura effettuati con cartucce “ecologiche” senza piombo, in quanto poi le carni debitamente controllate a livello sanitario, vengono messe sul mercato; ed è dimostrato che il piombo delle cartucce, altamente nocivo, rilascia nella carne del cinghiale un certo livello di tossicità per la salute umana.

Che fare, allora, di fronte a questo scenario, e nei prossimi 120 giorni, tempo dalla “bollinatura” della Legge Finanziaria in cui il Ministero della Sicurezza Energetica (già dell’Ambiente e della Transizione Ecologica) dovrà trasformare in atti e procedure l’indirizzo votato? Considerato che secondo un sondaggio commissionato a EMG Different nel febbraio 2022, il 76 per cento degli italiani vorrebbe l’abolizione della caccia, credo che debba essere lanciata una grande campagna di mobilitazione civile, individuale e collettiva, che metta in pratica alcuni principi e metodi della disobbedienza civile non violenta.

Non ci sono più le condizioni per far conto sulla politica, né tantomeno sul successo di nuove iniziative referendarie.

Le associazioni ambientaliste e animaliste per prime, dovrebbero promuovere tra le persone, chiedendo un piccolo impegno concreto, una campagna civile il cui slogan potrebbe essere, parafrasando un vecchio slogan: “Conosci un cacciatore? Digli di smettere”.

Si, perché ognuno di noi conosce almeno un cacciatore. Molto spesso è una persona che quotidianamente ci troviamo accanto: un parente, un amico, un collega di lavoro, quello con cui si scambia una battuta la mattina al bar o il pomeriggio in palestra; l’artigiano che viene a fare una riparazione a casa, il meccanico, il farmacista o il medico curante. Insomma, ci siamo capiti.

Verso queste persone che conosciamo, con educazione e rispetto, facciamo un’azione di moral dissuasion, cercando di metterle in contraddizione e a disagio per l’essere cacciatori; di farle esporre imbarazzate in un ambiente sociale (tipo al bar: “ciao Mario, ma ancora vai a caccia a sparare a delle creature viventi? Ma non provi un po’ di imbarazzo e vergogna?”).

Intervenendo sui social su notizie che riguardano la caccia, senza essere violenti verbalmente o offensivi, ma assertivi ed educati al tempo stesso (di solito si aspettano gli insulti, anzi se li cercano, sorprendiamoli con un altro stile).

Tanto più poi se sappiamo che questa persona è religiosa, e frequenta la Chiesa: “ma davvero vai in giro a sparare agli abitanti del Creato? Come fai a pregare San Francesco e nostro Signore?”

Un’azione lenta, dolce, che porti a far sentire queste persone dei disadattati, di cui non si ha piacere nell’incontrarli o nel doverli frequentare, e disagio nel conviverci sul posto di lavoro o in altre dinamiche relazionali.

Dopotutto, non è una missione impossibile, sono solo settecentomila.

Altra azione molto concreta, riguarda il boicottaggio economico e gastronomico: ciascuno, anche non necessariamente vegetariano e vegano, scelga di non essere cliente di ristoranti che servono nei loro menù piatti a base di selvaggina; chiediamo, quando prenotiamo un tavolo, se servono o meno selvaggina. Facciamo, a partire dal luogo di residenza, per ogni Comune d’Italia, una black list dei ristoranti che servono selvaggina, e facciamola circolare sui social e sulle chat.

Molte campagne civili, per conquiste di diritti, e per l’eliminazione di discriminazioni, che hanno avuto successo nella Storia, sono iniziate proprio con piccoli gesti individuali di boicottaggio. Perché non dovrebbe funzionare anche con i cacciatori?

Tratto da: https://comune-info.net/cinghiali-business-e-disobbedienza/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=Come+vivremo+nel+2023%3F

 

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