In morte di un meticcio senza nome

di Paolo X Viarengo.

Dalle parti di Castagnole Lanze, ai primi di dicembre, si è affacciato un simil segugio. Senza microchip ma con un vistoso segno di collarino. Stentava ad avvicinarsi alle donne e agli uomini del posto. Diffidente. Ma, piano piano, questa diffidenza veniva colmata dalla pazienza che entrambe le parti stavano usando. Oggi una fiutatina alla mano dell’umano da parte canina. Domani un pezzo di pane offerto al cagnolino da parte umana. Pazienza e comprensione stavano trasformandosi, lentamente come è giusto che sia, in fiducia ed affetto. Il cane non era di nessuno, anche se nessun cane dovrebbe essere di qualcuno: non sono merce, non sono auto, sono esseri senzienti...

E quando decidono di vivere con te e di donarti completamente il proprio cuore, lo fanno non perché sono tuoi schiavi ma perché ti amano come solo un cane sa fare: completamente. Incondizionatamente. Ma non sono tuoi. O, meglio, sono tuoi nella misura in cui tu sarai loro.
Si dice che un cane lo porti fuori per qualche anno e poi lo porti dentro per sempre. E chi ha vissuto con un peloso sa quanto siano vere queste poche parole.

Ai Colombè, località Rocca, stava accadendo qualcosa di meraviglioso e sempre unico. Un cane, un meticcio senza nome, seguendo il proprio istinto che lo porta a legarsi anima e corpo agli uomini, lo stava facendo. Delle donne e degli uomini stavano seguendo la loro parte più nobile, quella che da millenni a questa a parte ha sempre fatto si che la razza umana convivesse con il cane. Qualcosa di magico che da generazioni si ripete sulla terra. Il meticcio avrebbe collegato un suono a coccole. Pappa. Calore. Sicurezza.

Le donne e gli uomini gli avrebbero dato un nome con cui chiamarlo. Per averlo a fianco quando avranno bisogno di qualcuno che possa scaldare loro il cuore con la sua semplicità. Con la sua genuinità. Con la sua ingenua creduloneria nella bontà umana.
Stava accadendo questo a Castagnole Lanze. Località Rocca. Colombè. L’ennesimo miracolo dell’amore tra le specie che popolano questo pianeta di tutti quanti.

Ma tutto è stato interrotto da una fucilata. Domenica, nel campo del futuro miracolo, c’era una battuta di caccia al cinghiale. Il meticcio senza nome, nel cortile della casa dei suoi nuovi amici, abbaiava. Forse per avvisarli che c’era qualcosa di estraneo. Forse anche scodinzolando, come fanno tanti cani nelle nostre campagne quando passi, speranzosi di un bocconcino o di una carezza.
Abbaiava, perché i cani abbaiano. Ma disturbava i potenti cacciatori giunti lì con i loro fuoristrada, le loro tenute simil mimetiche e con in braccio delle lunghe e rigide canne nere, forse a compensare quel che manca loro nelle mutande.

Dovevano cacciare il cinghiale. Fare il loro favore all’ambiente contro la proliferazione di questi animali dannosi, eppure anche loro senzienti. O, meglio, pensare di farlo, in quanto importati da loro stessi, anni fa, per il dubbio diletto di poterli poi ammazzare, e poi lasciati liberi a far danni nelle campagne.
Per secondo, perché solitamente si spara al più grosso, cioè alla femmina Alfa, l’unica riproduttrice: morta lei, tutte le altre femmine diventano feconde, ed ecco la proliferazione dei cinghiali. Ma prima di fare ulteriore danno a quanto da loro già arrecato, c’era quel cane. Il meticcio senza nome. Abbaiava. Forse distraeva i cani. Forse faceva fuggire i cinghiali. Forse.

Qualcuno imbraccia il fucile e lo fa tacere per sempre. Ne prende il corpo e lo trascina in un fossato dove lo lascia a morire, per poi dedicarsi alla sua feroce caccia a tutto il resto. Mentre la scia del sangue innocente del cane trascinato, pietosamente viene accolta dalla Madre Terra. Mentre per chi ha premuto il grilletto, altro non rimane che disprezzo. Una leggenda indiana narra che i cani, una volta giunta l’ora, vadano tutti in un bel prato. Ai piedi del ponte dell’arcobaleno, dove possono correre e giocare felici, in attesa. Sempre in attesa dei loro amici a due zampe. Finchè un bel giorno arrivano ed assieme, l’uno a fianco all’altro, percorrono il ponte dell’arcobaleno verso la felicità eterna: l’uno guida dell’altro. Uniti, finalmente, per sempre.

Il meticcio senza nome ora è là anche lui. A domandarsi perché. Perché lo hanno ammazzato? Perché gli hanno sparato? Con che diritto gli hanno tolto la vita?
Se lo stanno domandando anche i Carabinieri forestali che hanno aperto un’inchiesta. Se lo stanno domandando anche le associazioni animaliste: ma chi avrebbe mai eletto i cacciatori custodi del Creato e detentori del diritto di vita e di morte sulle sue creature?
 
Un‘inchiesta che non porterà in vita il meticcio senza nome. Un’inchiesta del perché sparare ad un cane potrebbe essere reato e a un cinghiale, a una beccaccia o a un capriolo, no.
Eppure è così.
Eppure anche se condannassero la bestia che gli ha sparato, lui non tornerà dal bel prato verde dove sta aspettando che arrivino i suoi amici. Per salutarli come solo i cani sanno fare. Che voi stiate via dieci minuti o una vita intera. Scodinzolando in tutto il corpo. Uggiolando e mugolando, danzando e cantando per voi la canzone della felicità. Per, poi, accompagnarli oltre il ponte dell’arcobaleno.

Magari girandosi, per un breve istante, a guardare quel fosso dove il suo corpo è stato abbandonato come immondizia. Quel fosso consacrato per sempre alla memoria di un meticcio senza nome. Che cercava amore e ha trovato una fucilata.

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