L’anello debole

di Paolo X Viarengo.

L’uomo ragno ha le ragnatele. Hulk la forza. Il mio superpotere, invece, è quello di fare arrabbiare la gente. Ricordo una sfuriata epica di un decano e maestro di questa professione, come Carlo Cerrato. Ne ricordo un’altra dell’amico e mentore, nonché direttore proprio di questa di testata, Alessandro Mortarino, che s’arrabbiò parecchio quando scrissi in merito alla vicenda della costruzione di un resort di lusso vicino al Parco di Valleandona. Per non parlare poi dell’arrabbiatura del potenziale investitore di questo resort e presidente del Parco stesso, Livio Negro...

Ma non posso citare tutte le lettere di avvocati, telefonate di gente arrabbiata o altro che ricevo dopo la pubblicazione di quasi ogni mio scritto. Dall’Asp, dall’ormai dimissionario AD Paolo Golzio, ai vari sindaci, punti sul vivo quando scrivo che il Re è nudo. Ne cito solo uno, degno di encomio, che per motivare l’installazione di un osceno antennone di ripetitoria telefonica in un posto meraviglioso del paese da lui amministrato, parlò di una battaglia per la “libertà” tecnologica contro l’oscurantismo di chi non è connesso: paragonai lui e la sua antenna a Benjamin Franklin, noto rivoluzionario americano ed inventore del parafulmine. Non la prese bene.

Anche Luca Quagliotti, segretario generale della Cgil astigiana, non si sottrae al mio superpotere. Ma io cerco di sottrarmi a lui: primo perché, oggettivamente, è grosso. Secondo perché, altrettanto oggettivamente, ha molto spesso ragione, come del resto, anche qua oggettivamente, quasi tutti quelli che si arrabbiano per i miei scritti. Terzo perché, in ultima analisi, è un caro amico.
L’oggetto del contendere, questa volta, è stata la consegna di borse di studio a cui il suo sindacato non ha contribuito. Mai lo ha fatto, in realtà, e il mio tirarlo per la giacchetta su una cosa mai pensata, cercata e nemmeno voluta è stata una mera provocazione, sicuramente sopra le righe. Come è nel mio distorto modo di scrivere.

E Luca non si è assolutamente sottratto. Anzi. Sanguigno come sempre, forse ancora memore di Derby persi (lui, purtroppo, è del Toro e io, per fortuna, molto gobbo) mi ha telefonato. “Ma arriva da te una roba del genere o è una frase di altri?”.
No, è farina del mio sacco, rispondo. E in quel preciso punto della telefonata, come si dice in piemontese, è partita la colomba. Ma perché devo destinare fondi a chi vuoi tu? Io i fondi li destino a chi voglio io! Perché devo premiare chi prende cento alla maturità? Piuttosto premio i sessanta!
E lì ci siamo fermati un attimo: entrambi orgogliosi 36 alla maturità di un tempo che fu, all’epoca la votazione arrivava a 60 sessantesimi e non a 100 centesimi. A me diedero 36 e tante raccomandazioni, non seguite, di non farmi mai più vedere vicino ad una scuola.

Ma la domanda è: perché premiare i cento e non i sessanta? Perché premiare chi già è riuscito e non chi invece non ha trovato gli stimoli per riuscire? Al di là delle facili battute sul fatto che i 60 sono più simpatici dei 100. Io e Luca, oggettivamente, lo siamo; così come Paperino è oggettivamente più simpatico di Topolino e lo stesso Oscar Wilde, potendo, avrebbe scelto il Paradiso per il clima ma l’Inferno per la compagnia.
In effetti la riflessione, provocatoria, si potrebbe basare sul concetto della catena: forte quanto è forte il suo anello più debole. Fortificare ancora di più i suoi anelli più forti, tralasciando quelli deboli, non la farà più resistente: anzi, ai fini del risultato collettivo è solo uno spreco di buon ferro messo nei punti sbagliati.

Il risultato collettivo, appunto: questo sconosciuto. Viviamo in una società in cui ognuno di noi è fortemente connesso e ha necessità del prossimo ma, d’altro canto, invogliamo tutti a primeggiare e a essere i migliori.
Sempre provocatoriamente, perché a scuola si punisce chi passa il compito al compagno che non ha studiato invece di premiarlo per l’altruismo? Viviamo in una società o in tanti piccoli bunker singoli che fanno a gara ad essere più belli?

Fin da piccoli siamo invogliati a pensare più a noi stessi che al prossimo. Ognuno per sé e Dio per tutti: che era anche il grido di chi si lanciava fuori bordo quando la barca affondava e non c’erano più speranze. E la nostra barca sta affondando. Nonostante sul ponte di comando l’orchestrina continui a suonare, il nostro Titanic ha già preso tre grossi iceberg: nel 2001 la crisi politico-sociale, nel 2008 la crisi economica e nel 2020 la crisi sanitaria.
E, nonostante tutto, sta facendo rotta, consapevole e volontaria, guidato da timonieri con la testa china su libri di economia del secolo scorso, invece di tenerla alta a scrutare l’orizzonte per evitare il prossimo ostacolo: l’iceberg della crisi climatica. E la nuova rotta deve passare dalle nuove generazioni: stimolate a cooperare e non a competere. Fin da piccoli. Capaci di creare un collettivo, Capaci di passare sopra le differenze e le disuguaglianze. Capaci di esaltare nel gruppo le capacità che ognuno ha, non discriminare e lasciare indietro, chi ha capacità diverse dallo studiare o dall’apprendere mnemonicamente.

Chi è bravo a scuola aiuti gli altri meno portati. Chi è bravo nello sport aiuti gli altri meno portati. Chi è bravo con le donne o l’alcool aiuti gli altri meno portati. Forse saremmo tutti quanti più felici e meno stressati.
Perché il meglio della vita non è sapere che Napoleone fu sconfitto a Waterloo il 18 giugno del 1815 ma comprenderne il perché, assieme a tutti gli altri. E poi, magari tutti assieme, anche chi non ha le doti di Ronaldo, andarsi a fare una bella partita a pallone e bersi qualcosa.

Come diceva George Best:Ho speso tutti i miei soldi in donne ed alcool, il resto l’ho sperperato”. Senza vincitori né vinti. Senza bulli né secchioni. E da un articolo brutto e provocatorio nascono confronti, spunti e riflessioni.
Come cantava De Andredai diamanti non nasce niente ma dal letame nascono i fiori”.
E io, diamanti non ne possiedo...

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