Per una cultura della pace

di Enrico Peyretti.

Assumo questo presupposto: la politica è vivere insieme, non è anzitutto lotta. È anche confronto, dibattito vivace, competizione, ma senza violenza: se è vita insieme è nonviolenza. Vivere insieme è vivere molti (polis), differenti tutti, senza esclusioni, al meglio possibile di umanità: sentire che l’altra persona ‒ carne e spirito ‒ è una edizione diversa e unica di me, e io sono copia diversa e unica di lei. La città politica è “con-differenza”. La pace è tra differenti. In un altro momento ci faremo anche l’obiezione: è possibile la difesa dalla guerra senza la guerra di difesa?...

Oggi abbiamo la rivelazione dell’era atomica: la politica intesa come lotta totale tra gruppi umani è la morte totale. Ciò rivela che la politica-lotta conduce all’estremo onni-distruttivo. La politica, in modi più o meno giusti, è comunque l’uscita dalla lotta di tutti contro tutti. Perciò, la politica è pace: è com-posizione delle differenze (le differenze stanno insieme), è anche dinamica, dialettica, polemica, non è statica, ma è con-vivere: “vita tua vita mea”; ogni vita vive anche delle altre vite, pur dialetticamente, ma sim-bioticamente, non in alternativa eliminatoria. È regolazione della società, del vivere da soci per uno scopo comune, o scopi com-possibili.

Ogni offesa a una persona ferisce la politica, ferisce tutti, perché hanno bisogno di quella vita, che non sia offesa, compressa, ma libera, espressa. La politica è pace sufficiente, oppure non è politica. Non è lotta per prendere il potere sugli altri, ma azione collettiva, dialettica, per vincere i mali che riducono la giustizia reciproca. Per Gandhi la politica: «non è potere, ma amore», cioè disposizione sostanzialmente favorevole verso gli altri (Roberto Mancini, Gandhi. Al di là del principio di potere, Feltrinelli). Di «amore politico» parla anche Francesco in Fratelli tutti.

Un ruolo politico non consiste nell’imporre a tutti la propria volontà, o la volontà di una parte su tutti, ma è l’incarico, qualificato dai valori e capacità dell’incaricato, di lavorare per il bene comune, di tutti, non contro qualcuno, salvo impedire azioni antisociali. Perciò, in un sistema politico giusto, il potere è affidato con limiti e contrappesi che lo incanalano al suo fine, che non è un vincere, una vittoria, ma un onere, un incarico.

Inoltre, come già accennato, oggi l’umanità è unica, la sorte è comune, non è più separabile tra sommersi e salvati: vedi pandemia, inquinamento, radiazioni nucleari, influenza reciproca delle economie… In questo quadro umanistico-planetario, nuovo in confronto al passato, quando eravamo isole di civiltà, si pone il problema pace-guerra: la guerra è violenza organizzata, non è una singola azione violenta; non è solo il male che è nell’uomo (a volte lupo per l’altro uomo), ma è la strutturazione della volontà distruttiva, è istituzione, sistema.

La guerra nega la politica, nega il diritto alla vita non minacciata, cioè giusta. La quale politica non consiste nella tensione “amico-nemico” (Carl Schmitt): terra e sangue; confine, nazione. Con questa idea siamo arrivati alla possibilità concreta di distruggerci tutti. Ma oggi, nell’onni-connessione, e nel rischio massimo nucleare, nonostante le divisioni, il mondo è unico, unica è l’umanità. Eppure oggi di nuovo vediamo intendere la politica come guerra, negazione della politica umana: imperi opposti, guerra di imperi, intenti di sopraffazione, di unificazione violenta, diseguale, pericolosa. Gli imperi che si oppongono sono visioni false, allucinazioni: i confini sono più che mai artificiali: l’ambiente, le risorse, la comunicazione, la connessione, l’inter-influenza, sono realtà e anche valori indivisibili; gli imperi tagliano la vita dell’umanità, unica e poliedrica. Tagliano con fendenti dolorosi che sono autolesioni perché di fatto l’umanità è un corpo unico.

Nella nuova inter-società, la guerra è crimine, non è confronto di capacità e di soluzioni vitali. Il soldato (senza offesa per i singoli, che sono vittime) è un boia mandato ad uccidere; a costo di morire lui stesso pur di uccidere. Qui avviene la massima strumentalizzazione della persona umana, massima immoralità, direttamente denunciata da Kant (1795, Progetto filosofico per la pace perpetua, Art. 3 preliminare). Il reclutamento forzato dei riservisti, in questo settembre in Russia (e dovunque accada), è azione paragonabile allo schiavismo. Se questa accusa di massimo antiumanesimo è “vilipendio” delle forze armate, delle istituzioni e tradizioni militari, sia pure: è condanna di un’azione vile verso la dignità umana del soldato. Non viene offesa solo l’umanità del nemico ucciso, ma la stessa umanità del soldato che lo uccide. A questo si rifiutano gli obiettori di coscienza, a costo di condanna, ieri in Italia, oggi in Ucraina e Russia. La condanna della milizia non è offesa di valori umani reali, della Patria come nazione, tradizione, cultura: noi siamo grati a questa terra e popolo e linguaggio. La condanna della milizia condanna la logica dell’orgoglio separato e della vile forza omicida.

L’omicidio bellico è persino glorificato: chi muore per uccidere è celebrato: “Dulce et decorum est pro patria mori“. Nei monumenti ai “caduti”, che sono invece ammazzati, l’estrema offesa retorica è scolpita nelle lapidi. Sto leggendo Nuto Revelli, L’ultimo fronte: sono le lettere dei dispersi in Russia, voci dall’oltretomba. Allora soffrivano, ma non sapevano del tutto l’uso che veniva fatto di loro. Oggi sono sentenze. C’è un pensiero di Pascal: basta un fiume a tagliare l’umanità. «Perché mi uccidete?». «E che? Non abitate forse sull’altra sponda del fiume? Amico, se abitaste da questa parte, io sarei un assassino, e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo, ma poiché abitate dall’altra parte, io sono un valoroso, e quel che faccio è giusto». (Pensieri, Edizioni Brunschwieg, 293). Ma la guerra è il delitto, perché nessun fiume taglia l’umanità. La frontiera nazional-militare (non puramente amministrativa), sacralizzata, offende chi è fatto “nemico”, perciò de-umanizzato: questo è il vero “vilipendio” dell’umano diverso da noi, che è relazione positiva necessaria ad ognuno di noi.

Inoltre, oggi la guerra diventa fisicamente impossibile, perché è possibile la guerra totale, autodistruttiva: non serve a nessuno, non serve al potere, non c’è vittoria, c’è solo crimine. Non è solo impossibile fisicamente, perché non distingue più vivi e morti, ma impossibile anche moralmente: per giustificare la guerra e sopportarne i dolori il risultato doveva migliorare la situazione precedente. La guerra oggi migliora qualcosa? E forse migliorava ieri? Già Kant, con sentenza lapidaria: «La guerra fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo». È mai conveniente? E anche psicologicamente diventa impossibile: posso accettare la guerra alla Cina mentre vado a cenare al ristorante cinese, e faccio amicizia coi cinesi? Benedetta immigrazione se ci educa alla varietà umana, differente e uguale!

Oggi la politica si rivela come deve essere per essere umana: è esigenza di pace. La rivoluzione-avanzamento nel cammino umano oggi è la pace politica strutturale, strutturata. Per Hegel e Croce, la guerra rinnova l’acqua stagnante. Per i futuristi è igiene del mondo! In realtà: la guerra si rivela la morte del mondo umano! Non vogliamo affatto una pace negativa, stagnante, ma una vita dinamica, dialettica, che esclude solo la violenza. Stagnante è la morte inflitta, la violenza. Perciò il “pacifismo” appare idea negativa, vuota, solo non-guerra. L’idea-guida non è il pacifismo, ma la nonviolenza attiva: l’assunzione e anzi la messa in evidenza dei conflitti, che sono la dinamica delle differenze arricchenti, purché gestiti con la nonviolenza attiva, con l’azione resistente alla violenza, e costruttiva di giustizia.

Tratto da: https://volerelaluna.it/cultura/2022/09/28/per-una-cultura-della-pace/

 

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