Grandezza e decadenza delle civiltà

Imagedi Antoine Fratini, Movimento Stop al Consumo di Territorio di Fidenza e Presidente dell'Associazione Europea di Psicoanalisi.
In questi ultimi decenni molti studiosi hanno richiamato l’attenzione sui problemi ecologici e sui limiti e le contraddizioni inerenti al nostro sistema. Tra questi, un posto di rilievo merita sicuramente il vincitore del premio Pulitzer Jared Diamond, biologo e evoluzionista americano oggi docente di geografia e scienze ambientali all’UCLA ...


L’impatto avuto dalle sue opere più note Armi, acciaio e malattie: breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Einaudi, 1997) e Collasso: come le società scelgono di morire o di vivere (Einaudi, 2005), sulla cultura mondiale e in particolare in tutta l’area “verde”, è notevole.
Il tema centrale di Armi è quello dello sviluppo delle disuguaglianze tra le società e delle cause della crescente “complessificazione” delle civiltà, con particolare riferimento alla civiltà europea.
Collasso tratta prevalentemente delle cause di quelle cadute verticali di complessità delle società che l’autore chiama “collassi” e di cui l’infausto destino dell’isola di Pasqua rappresenta un simbolo nell’immaginario collettivo.

Sintetizzando, questi lavori, apprezzati tra l’altro da importanti Capi di Stato come Bill Clinton e Nicolas Sarkozy, affrontano la questione della grandezza e della decadenza delle società umane adottando una ottica neodarwiniana in virtù della quale l’autore attribuisce alle sue tesi uno statuto scientifico puro.
La tesi più centrale afferma che a determinare lo sviluppo o il collasso delle civiltà sarebbero i fattori geografici e ambientali che possono avvantaggiare o meno certi popoli, assieme al cattivo uso delle risorse naturali e al deterioramento delle loro relazioni.

La novità di peso introdotta da Diamond consiste nel proporre una analisi razionale e determinista dello sviluppo delle società e al tempo stesso di concepire l’umanità come necessariamente integrata ad una realtà ecologica che la trascende e che può di ritorno rimetterla in causa oppure distruggerla.
Per cui, alla fine, sopravvivono e si sviluppano maggiormente quelle civiltà che si adattano meglio al loro ambiente e che fanno il miglior uso delle risorse ambientali.

Diamond smuove dunque le frontiere della disciplina storica integrando le scienze naturali nel cuore della logica dello sviluppo delle civiltà. Tuttavia, egli relativizza oltremodo il ruolo della cultura in questo sviluppo, finendo per attribuire una importanza di gran lunga preminente ai fattori ambientali.
In un’epoca in cui, purtroppo, i problemi ecologici sono sempre più all’ordine del giorno, una simile tesi assume certamente un peso particolarmente rilevante dal punto di vista culturale, prima ancora che scientifico.
Che le zone propizie al sostentamento, agli scambi e agli spostamenti possano favorire lo sviluppo delle civiltà non è di certo una novità. Tutte le grandi civiltà si sono originariamente insediate in luoghi propizi dal punto di vista geografico e ambientale: fiumi, terre fertili, foreste ricche in biodiversità … Volendo però abbordare la questione partendo da un altro punto di vista, quello della psicologia animistica (con questa espressione intendo un nuovo orientamento psicodinamico che trae ispirazione in particolare dalla cultura animista), dovremmo chiederci quanto l’anima (da intendere qui nel senso delle impressioni globali rilasciate da questi sistemi a livello della psiche inconscia) dei luoghi (fiumi, montagne, foreste, conformazioni geologiche …) abbia influito sulla psiche individuale e collettiva dei popoli e sia stata determinante nelle loro scelte.

Generalmente, nei lavori che trattano il tema del rapporto tra uomo e ambiente tale criterio non viene mai preso in considerazione. Quelli di Diamond non fanno eccezione.
La possibilità di una percezione animistica, non razionale, del mondo risulta forclusa, cioè “non pensata”. Essa appare troppo lontana dalla mentalità moderna per essere anche solamente avvistata. Un fatto, questo, che rende abbastanza bene l’enorme distanza che separa ormai la cultura occidentale da quella animistica.
Eppure, per i membri tribali come del resto (seppur in modo e in misura diversi) per i popoli antichi, l’anima dei luoghi era considerata una realtà tangibile con la quale fare necessariamente i conti. I membri tribali basano molte loro scelte, anche di politica territoriale, in primis su questa facoltà che potremmo chiamare “percezione animistica”.
Per loro un luogo può, per esempio, sulla base delle impressioni profonde (positive o negative) che è suscettibile di produrre sulla psiche, essere ritenuto propizio o sfavorevole per la caccia o per l’insediamento.

E’ bene sottolineare che tali giudizi e scelte emergono in massima parte dall’inconscio e quindi non possono considerarsi frutto di valutazioni prevalentemente razionali basate sulla predisposizione geografica e ambientale dei luoghi.
Molti popoli tribali hanno scelto di vivere in zone estremamente improbabili da questo punto di vista. Si pensi per esempio a certe etnie della Siberia o del deserto africano. Alcune civiltà tribali vivono da tempi immemori in luoghi che per via della loro inospitalità ambientale avrebbero dovuto essere razionalmente scartati. Le stesse montagne sacre, dalle vette dell’Himayala agli Ayers Rock dell’Australia, consistono in luoghi impervi e aridi, ma che tuttavia fanno da importante scenario geografico spirituale alla vita tribale.
Così, nelle culture animistiche le scelte individuali e collettive risentono almeno in misura eguale dalla percezione inconscia che dal pensiero razionale.

Come ho sostenuto in una opera di recente pubblicazione, l’animismo non consiste in una forma arcaica o ingenua di pensiero, ma in un altra modalità di funzionamento della psiche nella sua globalità. Una modalità in cui le parti consce ed inconsce coesistono senza frattura coinvolgendo in modo armonioso il mondo naturale che tradizionalmente funge da ricettacolo per le proiezioni di contenuti inconsci.
Per questo motivo essenzialmente i luoghi (e le altre entità) possono entrare in risonanza psichica con gli individui, ispirarli o intimorirli. Capire queste differenze profonde di psicologia suggerisce addirittura una riconfigurazione di quel che Jung chiama processo di individuazione inteso come realizzazione del Sé. Il fatto che certi popoli tribali vivono nello stesso identico modo da oltre 40.000 anni non sembra dovuto ad un arresto della loro evoluzione, ma piuttosto al raggiungimento di un soddisfacente grado di armonia con la Natura e con l’inconscio.

Proprio in questo grado di armonia sembra consistere la realizzazione del Sé. Per cui viene meno per queste comunità l’esigenza di ulteriori differenziazioni.
Per Jung, realizzare il Sé significa raggiungere un grado ottimale di equilibrio funzionale tra le parti consci ed inconsce della personalità. Per i membri tribali quell’equilibrio non saprebbe essere tutto interiore, ma deve coinvolgere anche la Natura che funge da contenitore e da tramite tra la coscienza e l’inconscio.
In altri termini, essi vivono l’inconscio in gran parte nel loro rapporto quotidiano con la Natura, la quale diventa per questa via sacra, misteriosa e in grado di offrire dei riscontri pressoché ignoti a noi moderni, ma non per questo necessariamente meno importanti per l’adattamento. Tale parere potrà forse lasciare perplessi considerando il comune giudizio che nutriamo verso questi popoli “inferiori”, ma di fatto esso si esprime anche in diversi prodotti culturali moderni. Per esempio, nel film Il pianeta verde alcuni esponenti di un popolo avanzato decidono di tornare sulla Terra. Essi atterrano presso una tribù aborigena dell’Australia sorprendendosi per quanto questi umani, che conoscono la telepatia e vivono in armonia con la Natura, si siano evoluti ! Salvo poi accorgersi che la maggior parte dei terrestri vivono in modo radicalmente diverso, abitano in città grigie e inquinate, isolati nel loro ego e scisse dal mondo naturale.

Anche il filosofo americano James Hillman sembra avere intuito la necessità di cambiare modello psicologico e di operare un passaggio dall’ego all’anima. Puntando sul suo “fare anima”, egli mostra di preferire un modello psicologico che prevede una infinità di modi di essere ispirati agli archetipi espressi nei miti, alla realizzazione del Sé intesa come identificazione ad un unico archetipo. Quei personaggi della mitologia classica ai quali Hillman propone di ispirarci rammentano da vicino le anime della Natura e gli antenati totemici dei popoli tribali. Non a caso gli dei in tutto il mondo erano originariamente descritti e rappresentati come esseri in parte animali e in parte umani.

Ora, se per l’uomo moderno una conversione pura e semplice all’animismo appare impossibile, tornare ad avvertire la dimensione animistica dei luoghi e degli esseri potrebbe rappresentare un significativo passo in avanti sul cammino della sua individuazione.
Quel recupero probabilmente implicherebbe il passaggio ad una concezione dell’inconscio che non crei compartimenti stagni tra Psiche e Natura, tra mondo interiore e mondo esteriore.
Un passaggio le cui modalità restano tuttavia da inventare visto che al momento non è contemplato da nessun sistema psicologico o filosofico.

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