Il vero problema del futuro non sarà il lavoro ma il tempo libero

di Elis Viettone.

Nel  suo ultimo libro “Smart working, la rivoluzione del lavoro intelligente” (Marsilio editore) Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia alla Sapienza di Roma, individua le macro tendenze e caratteristiche per le quali questo modello, da lui già teorizzato a partire dalla fine degli anni '80, dovrà necessariamente affermarsi sempre di più. Caratteristiche di questa nuova modalità, discusse il 3 dicembre nel webinar, organizzato dallo Studio De Masi, “Il futuro dello smart working” insieme a numerosi rappresentanti del mondo accademico, imprenditoriale e sindacale, sono il superamento del lavoro dipendente e a favore di quello autonomo, un aumento della produttività, un ripensamento degli spazi cittadini e del tempo libero e minori emissioni di CO2...

Professor De Masi, in meno di un anno abbiamo compiuto una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro e oggi il concetto di smart working sembra con noi da sempre. Come siamo arrivati a questo?

Le due fasi precedenti dello sviluppo umano fanno parte di un'era lunghissima iniziata 5mila anni fa: quella centrata su produzione agricola e  artigianale, che ha visto il suo declino alla fine del Settecento, e quella dell'industrializzazione, iniziata alla fine del '700 e terminata alla metà del '900, basata soprattutto sulla produzione di beni materiali come frigoriferi, automobili, etc...
Poi è seguita la terza fase e si è affermata la società post-industriale in cui siamo immersi. Oggi il sistema è centrato sulla realizzazione di beni immateriali, cioè di informazioni, servizi, simboli, valori ed estetica. In queste tre fasi il lavoro ha cambiato completamente pelle: nella società rurale il 90% dei lavoratori era costituito da contadini e artigiani, nella società industriale 90% erano operai. Ora è il momento di un ulteriore salto, con l'intelligenza artificiale. Ognuna di queste tappe ha modificato profondamente il lavoro perché l'utilizzo delle macchine adottate, dal telaio ai dispositivi digitali quali computer e smartphone, è servito via via a risparmiare fatica all'uomo. Oggi nel mondo su cento lavoratori, 70 sono impiegati, manager, dirigenti o professionisti, cioè persone che non manipolano materie prime, cioè atomi, ma informazioni, cioè bit. Se è difficile immaginare di spostare un altoforno a casa dell'operaio, non si capisce perché non si possono portare i bit a casa delle persone piuttosto che spostarle fisicamente sui posti di lavoro.


Come mai secondo lei non si è compreso prima il vantaggio di farci raggiungere dal lavoro dove era più comodo e funzionale alla vita delle persone e delle città, ci serviva una pandemia?

Ci siamo abituati per 200 anni a spostarci per andare al lavoro, ma oggi abbiamo continuato a farlo come se il lavoro di elaborazione delle informazioni fosse un tutt'uno con l'edificio dell'azienda dove siamo impiegati, per cui ogni mattina milioni di persone escono di casa e di questi il 70% va in ufficio, generando costi per l'azienda, congestione del traffico e del tessuto urbano, inquinando per gli spostamenti, mentre potrebbero semplicemente spostare in tempo reale i bit necessari, azzerando tutte queste esternalità negative. Negli anni '80-'90 avevo creato la Sit, Società italiana per il telelavoro, proprio per indurre le aziende a tele lavorare però in pochi ne compresero i vantaggi. Il primo marzo di quest'anno circa mezzo milione di persone era in smart working. Dopo il Dpcm dell'8 marzo che obbligava tutti a lavorare da casa, i telelavoratori sono schizzati in una settimana a otto milioni. Con mia grande soddisfazione ma anche con una dose di rammarico perché ci si poteva arrivare già prima, più gradualmente e razionalmente, invece di predisporre tutto in fretta e furia. Ciò nonostante l'esperimento ha funzionato.


Quali sono le caratteristiche che la portano a vedere nello smart working il futuro del lavoro?

Innanzitutto il livello di produttività. All'inizio del '900 gli italiani erano 33  milioni   e lavoravano 70 miliardi di ore in un anno. L'anno scorso eravamo 60 milioni, quindi 27 milioni  in più, eppure abbiamo lavorato solo 40 miliardi di ore, producendo immensamente di più. Oggi con lo smart working è stato calcolato che la produttività aumenta ancora del 15-20%, liberando il tempo dei lavoratori anche dagli spostamenti, riducendo emissioni di CO2, traffico nelle ore di punta, spese di manutenzione stradale, incidenti stradali e relativi costi sociali. Non ci sarà più la città piena di giorno e deserta di notte. Si svuoteranno molti edifici facendo scendere i costi degli immobili che diventeranno luoghi adibiti ad attività culturali, sociali e ricreative. Si porterà il lavoro anche in zone periferiche o economicamente depresse. Poi c'è la progressiva riduzione del lavoro dipendente in favore di quello autonomo: il controllo del capo non riguarderà più i processi produttivi, ma solo i risultati, creando una moltitudine di imprenditori di sé che stabiliscono i propri orari, ritmi, pause e luoghi. L'azienda con questo nuovo modello dovrà condividere maggiormente le sue finalità perché solo così potrà ottenere del lavoro di qualità: non sarà più possibile trattare i dipendenti come operai di una catena di montaggio che producono delle componenti, ignari del progetto complessivo e per questo le imprese dovranno creare un maggiore senso di fiducia e appartenenza. Verranno premiate le capacità soft come motivazione, condivisione e solidarietà più che la cieca obbedienza un tempo richiesta nei confronti del capo. Centrale sarà la collaborazione tra colleghi e la capacità di lavorare in team, con le nuove possibilità di creare ottimi gruppi anche informatici, senza bisogno della vicinanza dei corpi.


Quali sono le prospettive per il prossimo futuro di questa transizione?

Molti lotteranno contro il cambiamento perché dietro a questi otto milioni di persone che hanno improvvisamente telelavorato, ci sono almeno 800mila capi che avevano impedito questa modalità, intendendo il proprio potere sugli impiegati come i caposquadra sugli operai. Dopo il Covid faranno di tutto per riportare le loro pecorelle nell'ovile. Nonostante i colletti bianchi non abbiano il senso di classe e di lotta degli operai, però, si prevede che in circa cinque milioni continueranno con lo smart working perché intanto i padroni si sono accorti del risparmio economico di questo processo. Si opporranno le società immobiliari che vedranno svuotarsi interi palazzi, i produttori di automobili e in generale mezzi privati, insieme alle lobby petrolifere. Il telelavoro è comunque destinato a vincere, ma ci sono altri tasselli che è utile tenere a mente. L'informatica si regge su microprocessori che raddoppiano la loro potenza ogni 18 mesi, quindi nel 2030 saranno diventati miliardi di volte più prestanti. Accanto a questi ci sono il riconoscimento vocale e le traduzioni automatiche, le nanotecnologie, la robotica. L'effetto diretto è una rivoluzione del paradigma delle nostre vite. I nostri nonni vivevano per lavorare, noi lavoreremo quel tanto che ci basterà per vivere. L'economista John Maynard Keynes prevedeva già nel 1930 che i suoi discendenti nel 2030 non avrebbero lavorato più di 15 ore settimanali. Oggi in Italia lavoriamo 1.800 ore all'anno, contro le 1.400 della Germania, dove però si produce il 20% in più. Tra dieci anni avremo ancora meno lavoro quindi il nodo non sarà il tempo a questo dedicato ma il tempo libero: ecco il vero problema del futuro. Il lavoro lo faranno in gran parte le macchine, a noi resteranno le mansioni creative per cui o ci saranno molti disoccupati o si lavorerà meno. Tra 50 anni sarà un mondo in cui agli esseri umani resteranno da svolgere solo i servizi alla persona, l'infermiere, la badante, e i lavori creativi, con un proliferare delle industrie della cultura.


Il lavoratore avrà ancora un potere in questo sistema che si va definendo?

Molto meno di oggi. Il primo articolo della nostra Costituzione recita “L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” ma quando fu scritto il lavoro rappresentava la metà della vita: si viveva 300mila ore   e si lavorava per 150mila. Oggi sono rispettivamente 700mila e 70mila: già ora quindi il lavoro rappresenta un decimo della vita ma presto diverrà un 20esimo, un 50esimo. E' chiaro che l'esistenza non più fondata sul lavoro vede il potere del lavoratore scemare notevolmente. Ci saranno delle attività che neppure l'intelligenza artificiale potrà rimpiazzare. La creatività, l'estetica, l'etica, la collaborazione, il pensiero critico e il problem solving: per queste ci vorrà sempre l'essere umano.

Tratto da: https://futuranetwork.eu/interventi-e-interviste/582-2414/de-masi-il-vero-problema-del-futuro-non-sara-il-lavoro-ma-il-tempo-libero

 

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