I novant'anni di Tomás Maldonado


di Simonetta Fiori.


«Con che stato d'animo festeggio i novant'anni ? Vorrei evitare la retrospettiva, che non mi si addice. Sono abituato a guardare in avanti e mi seccherebbe rinunciarvi per questa futile circostanza». Da quasi mezzo secolo in Italia, Tomás Maldonado non ha perso la cadenza della sua terra argentina, le inconfondibili "esse" e la parlata velocissima di un porteño di Buenos Aires. Elegante e flessuoso, sembra incarnare "la canna pensante" di Pascal, uomo dai molteplici interessi che spaziano dall' architettura alla tecnica, dalla sociologia al design, dall'arte alla semiotica e alla filosofia ...

«Sono inclassificabile, per questo guardato con sospetto», dice di sé con un sentimento misto di ironico distacco e consapevolezza leonardesca.
«Lo leggo negli occhi delle persone, ma che cosa farà nella vita?». Poi prova a immaginare un suo biglietto da visita. Artista. Scienziato. Designer. Epistemologo. Ambientalista. Fondatore di scuole. Ex direttore di Casabella. Viaggiatore. Grand gourmand.
«No, troppo imbarazzante».

Nella vita Maldonado ha fatto molte cose, e soprattutto le ha fatte prima degli altri. In Argentina è stato protagonista dell' arte astratta, introducendo il design nell' America Latina. In Germania, alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, ha insegnato - primo al mondo - la Semiotica.
È stato l' inventore, nell' università italiana, della cattedra di "Progettazione ambientale" e - insieme a Zanuso e Castiglioni - della laurea in Design.
Nel corso di un secolo (o quasi) ha avuto modo di discutere con Walter Gropius, di essere rimproverato da Heidegger, di confrontarsi a Princeton con molti premi Nobel e, negli ultimi quattro decenni, di stare vicino a Inge Feltrinelli.

Temperamento schivo, sono più numerosi i saggi delle interviste, e le edizioni internazionali delle apparizioni nella Tv. Un recente suo libro sulla tecnica è uscito in Brasile e in Germania, e lui si diverte a confrontare l'edizione latina, giocosa e coloratissima, con quella tedesca, biblicamente rilegata in grigio antracite. Due facce opposte di una stessa personalità.

Professor Maldonado, come si definirebbe?
«Non mi piace essere classificato, anche se capisco che sia un forte handicap. La mia interdisciplinarietà è stata spesso criticata. Ma non importa, ho la pelle dura».

Ma cosa muove questa sua trasversalità?
«Un'enorme curiosità e forse interviene anche una radice famigliare. Mio padre era uno scienziato, professore di chimica. E io sono il figlio di mezzo di tre maschi: il maggiore è stato uno dei più grandi poeti argentini, Edgar Bayley, che preferì adottare il cognome irlandese di mia madre, e il minore, Hector Maldonado, ha raggiunto l' eccellenza nel campo della biologia. Io sono stato l' uomo della mediazione tra humanities e scienza».

Perché ha scelto di essere italiano?
«Cominciai a viverci nel 1967, quando c' era ancora un grande fermento di idee. Il mio primo libro uscito in Italia si intitolava "Speranza progettuale", e ho cercato di mantenermi fedele a questo spirito, positivo e propositivo. Oggi, confesso, è più difficile. E non solo per ragioni anagrafiche».

Però lei era arrivato a Milano ancora prima, nell'aprile del 1948.
«Sì, di passaggio per la Svizzera, dove avrei incontrato Max Bill, il celebre artista allievo di Gropius. Avevo preso il piroscafo per Genova, viaggiando in terza classe tra gli ultimi della terra. Ma forse perché ero considerato un bel ragazzo, con fama di artista un po' folle, venni reclutato in prima classe, tra smoking bianchi e donne ingioiellate. Al mattino, sul ponte della nave, vedevo gli uomini di questa oligarchia argentina allenarsi con le armi. Avevano saputo delle elezioni italiane e sparavano contro i gabbiani per prepararsi al fatale scontro con i comunisti».

Inutile passatempo.
«Beh sì, sappiamo come è finita. A Milano andai alla libreria Rinascita per ascoltare Elio Vittorini. Lo scrittore era talmente infuriato con Palmiro Togliatti per la questione del Politecnico che non riusciva ad articolare bene le parole. Io ne rimasi entusiasta e, tornato a Buenos Aires, riferii ai miei compagni le critiche allo zdanovismo. Fui cacciato dal partito».

Intanto prende piede il progetto della Scuola di Ulm.
«Sì, tutto era nato da quell'incontro a Zurigo con Max Bill. Lo stesso giorno, Max ricevette la visita di Inge Scholl e del suo compagno, che con i soldi degli alleati americani volevano ridar vita all' esperienza del Bauhaus. L' idea era quella di una grande scuola internazionale di progettazione industriale, che partecipasse alla ricostruzione di una Germania devastata. Non fu facile organizzare il corpo docente: molti studiosi non volevano avere a che fare con il paese che s' era genuflesso a Hitler».

All'inaugurazione, nel 1954, Einstein si rifiutò di partecipare.
«Sì, aveva scelto di non tornare più in Germania. Venne invece Heidegger, anche se la sua partecipazione fu contestata». Lei lo difese?
«Pensavo che, al di là delle sue compromissioni con il nazismo, si trattava sempre di Heidegger. L'uomo non sprizzava simpatia. Per iniziare la conversazione, gli dissi che avevo letto "Essere e tempo" nell'edizione spagnola. Mi fulminò: "Allora lei non mi ha letto. Heidegger può essere letto solo in tedesco o in greco
"».

Con Walter Gropius, fondatore del Bauhaus, andò meglio.
«Max Bill difendeva la tradizione, mentre noi giovani rifiutavamo l' idea di una pedissequa continuazione: i problemi politici, economici e culturali con cui ci misuravamo erano diversi da quelli della Repubblica di Weimar. Ebbi anche un carteggio con Gropius. Alla fine vinse questa nostra linea. Nel 1964 divenni rettore della Scuola di Ulm».

Questa sua formazione inciderà non poco nelle animate discussioni con i designer italiani tra gli anni Sessanta e Settanta.
«Sì, prevaleva allora in Italia una visione estetizzante del design, la stessa che oggi trionfa al Salone del mobile. Per me il design non è divertissement ma conserva una importantissima funzione sociale. Che senso ha rifare migliaia di volte una sedia? O costruire mille tipologie di letti o armadi? I letti sono spazi dove si fanno cose importantissime, ma possiamo vivere oggi con gli stessi mobili degli anni Venti».

S'è perso di vista l'uso sociale del design?
«Sì, una deriva da cui si salva Ikea. Non dico che i loro mobili siano meravigliosi, ma hanno un' utilità sociale. Non c' è studente che non si faccia la prima casa con Ikea. Tutti gli intellettuali ricorrono a Ikea. Ma davvero mi vuol far dire queste cose?».

Perché no?
«I cultori dell'alto design italiano mi considereranno uno svitato. Già sono considerato un tipo strano».

Non l' ameranno di certo le archistar su cui s'è già espresso nel libro-intervista con Hans-Ulrich Obrist.
«Un grande filosofo diceva che c'è spazio per tutti nel grande banchetto della vita. Ma se questo vale per il design, non può valere per l'architettura. Qui divento intollerante. Stanno distruggendo le città con orribili grattacieli autocelebrativi, come accade nelle monarchie assolute o nei regimi religiosi. Con la differenza che nel Rinascimento erano molto più bravi».

Lei è molto critico nei confronti della "deriva scultorea" dell'architettura.

«Oggi prevale la tendenza a concepire gli edifici come opera di pura sperimentazione artistica, indipendentemente dalla funzione. Sculture che peraltro mi lasciano perplesso, come quelle che evocano mercati ortofrutticoli, stegosauri con vistose placche sul dorso, o pareti oblique dove non si può appendere neppure un quadro».

Inge Feltrinelli l'ha definita "una roccia", un riferimento fondamentale per sé e per il figlio Carlo.
«Inge è una donna formidabile, molto diversa da me. Io sono un latino americano di mentalità germanica; lei una tedesca di temperamento mediterraneo. Da una parte il rigore, non immune da pedanteria; dall'altra il caos totale e travolgente, che non ha mai smesso di affascinarmi. Un rapporto molto bello e complementare».

Come festeggia il compleanno?
«Un grande festa a Villadeati con i miei allievi di tutto il mondo. Vengono dall'Argentina e dalla Germania, da Harvard e Princeton, da Bologna Milano e Venezia. In fondo per gran parte della vita ho fatto il professore. Se proprio devo definirmi, sono un educatore genuino».

Tra le cose più importanti che cosa ha imparato?

«Possono cambiare i giocattoli, ma la condizione umana è abbastanza stabile. Qualche anno fa si profetizzava l'avvento totalizzante del virtuale, ma fortunatamente oggi ci interessa di più il reale. Un grande storico dell' università di Bologna, quando mi vedeva entusiasmarmi davanti a una conquista tecnologica, mi diceva: "Tomás, calmati. Alla lunga, la conservazione vince sempre". Dopo novant' anni all' avanguardia, posso dire che aveva ragione lui».

Tratto da "La Repubblica" del 25 aprile 2012.


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