Il fotovoltaico in Piemonte

Imagedi Maurizio Bongioanni.
In un passato non troppo remoto ai concetti di energia pulita e fonti rinnovabili si richiamavano soprattutto le tecnologie del fotovoltaico. L’immagine di quei grossi pannelli lucidi che, attirando i raggi del sole, quasi per magia producono energia pulita senza alcun tipo di emissione dannosa per l'ambiente era legata a una diffusa speranza di progresso, alla convinzione che, superato qualche iniziale ostacolo di tipo economico (gli investimenti in impianti), le tecnologie del solare avrebbero consentito di emanciparsi totalmente dal business del petrolio, magari consegnando alla storia – chissà – pure le troppe guerre combattute in nome dell'“oro nero” ...


Una previsione forse troppo ottimistica che oggi va accusando qualche seria incrinatura, offuscata dai sempre più numerosi tentativi di fare di questa importante risorsa l’ennesima occasione di speculazione.
Accanto ai pannelli posti sopra i tetti delle nostre abitazioni nacque, e s'impose presto sul mercato, l'idea dei pannelli “a terra”, costituendo quelli che un po' eufemisticamente prendono il nome di “parchi fotovoltaici”.

La posa a terra dei pannelli, infatti, sembra essere diventata la formula vincente per il mercato delle rinnovabili: suolo agricolo che caratterizza alcune zone ancora rurali, di campagna, sacrificato per 'coltivare' energia solare. Già ad un'analisi superficiale questo pare un incredibile paradosso: ricorrere ad una fonte energetica rinnovabile consumando un'altra risorsa non riproducibile qual è il suolo.
Il perché non vengano scelti, come unico e solo spazio utilizzabile, tetti di abitazioni, capannoni e/o superfici pubbliche è presto intuibile: i terreni degli agricoltori vengono strapagati, fino a dieci volte tanto.
I contadini ci guadagnano e i proponenti ricavano ingenti somme dai “certificati verdi”, cioè gli incentivi dati ai gestori di energia rinnovabile che attraverso il proprio impianto producono meno CO2 di uno alimentato a energie fossili.

Ovviamente in questo scambio c'è anche lo zampino dell'amministrazione pubblica la quale, dopo l'abolizione dell'Ici, non deve farsi scappare alcuna occasione di far cassa. Nella maggior parte dei casi succede, infatti, che il proponente, vero e proprio 'procacciatore di affari', abbia bisogno di trovare meno ostacoli possibili per l'avvio dei lavori, pena la scadenza dei certificati. Per questo viene siglata una convenzione mediante la quale l'impresa si adopera a versare una percentuale sul ricavo oppure una quota fissa annuale nelle casse comunali.

Questo metodo, che potrebbe essere giudicato economicamente ambiguo, è fatto completamente alla luce del sole: il Comune fa bella figura con l'energia pulita e le sue casse respirano.
In altri casi il Comune (ad esempio quello di Asti) è il proprietario delle aree e affida l'impianto ad un privato che fa tutto a costo zero e incamera, in compensazione, i ricavi ottenuti; lo stesso Comune trattiene per sé il surplus dei proventi da certificati verdi (agli Enti Pubblici vengono infatti destinati incentivi superiori rispetto alle iniziative private) e una quota percentuale pattuita e derivante dalla vendita di energia alla rete. Ricordiamo che il contributo elargito per promuovere la diffusione del fotovoltaico proviene da una quota che i contribuenti pagano sulla bolletta elettrica (alla voce CIP6).
Alcuni si chiedono se non sarebbe più giusto ripartire la quota in piccole parti per finanziare piccoli impianti famigliari piuttosto che farla assorbire da poche grandi compagnie.
E perché poi le banche paiono restie a finanziare le operazioni progettate sui tetti delle abitazioni? Secondo il parere di Gino Scarsi, uno dei fondatori della rete Stop al Consumo di Territorio, «la causa è da ricercare nella natura delle abitazioni stesse: non danno sicurezza nel tempo. Una casa può modificarsi, un terreno è sempre lì »

Dopo aver terminato le quote disponibili in Spagna e Germania, il business del fotovoltaico è emigrato in Italia dove, non esistendo un sistema chiaro di disposizioni locali, sono i singoli patti economici fra Imprenditori e Comuni a dettar legge.
Il Piemonte, in particolare, è una delle principali terre d'investimento in cui, nel giro di un solo anno, sono triplicati gli impianti solari: ad oggi si contano 3878 impianti, l'8% della quota nazionale, producendo 53 Gw di energia solare sui quali sono stati investiti 95 milioni di euro.
La provincia di Asti (che non è la più produttiva da questo punto di vista) ne conta 369 per un totale di 1,87 Gw ma le stime prevedono che entro il 2020, anno imposto dall'Unione Europea come traguardo energetico in seguito al summit di Copenaghen, si passerà a produrne 16-17 Gw.
Un aumento sbalorditivo.

Un punto critico però esiste e sono i dati a renderlo chiaro: per quell'anno si rischierà di avere 35-40 ettari di terreno coperti dai pannelli (“se venissero messi tutti a terra” tengono a precisare i tecnici). Effettivamente non si conosce l'esatto numero delle installazioni a terra, ma la sensazione è che ultimamente si preferiscano queste ai pannelli sui tetti. Installazioni che, specialmente in zone a bassa resa agricola, prevedono una discutibile riconversione dei terreni e l’occupazione di suoli che caratterizzano il paesaggio rurale tipico di queste zone.
Infatti, secondo i criteri ERA (Esclusione, Repulsione, Attrazione) adottati dalla Regione, non possono essere destinati quei terreni agricoli di I e II tipologia - quelli ad alto rendimento agricolo -, le zone soggette a esondazione e quelle di rilievo culturale.
Ma a ben vedere, quelli di III tipologia, maggiormente richiesti per ospitare i pannelli a terra, equivalgono a quei terreni che sì, non sono coltivabili, ma che dal punto di vista paesaggistico compongono la morfologia naturale di alcuni luoghi.
Ad esempio la zona collinare di Langhe, Roero e Monferrato, ricca di valori culturali ed enogastronomici, è una delle località più interessate dal fotovoltaico a terra perché ricche di terreni “del III tipo”.

I siti indicati dai criteri ERA alla voce Attrazione (e quindi maggiormente indicati per ospitare il fotovoltaico) sono discariche, ex cave, piazzali cementificati, quindi tutti terreni già compromessi e per questo irrecuperabili. Ma le proposte su queste superfici si contano sulle dita di una mano.
In alcune realtà, amministrazioni e cittadini stanno resistendo alle pressioni, in altre hanno ormai ceduto alle lusinghe del denaro (o alle costrizioni di mercato), in altre ancora si dividono in animati dibattiti sostenuti da reti ambientaliste in difesa del territorio.

Per andare nello specifico, in un paese di alta Langa, Monesiglio, una società ha richiesto l’autorizzazione a realizzare un impianto da 8 Mw, il quale, con un investimento stimato in oltre 40 milioni di euro, necessiterebbe di un intero versante di collina: una superficie di 20 ettari, 200 mila metri quadrati, per la quale pare che i proponenti abbiano addirittura proposto al Comune di procedere con espropri.
Oppure, in una frazione di Cherasco, si prevede la costruzione di un parco fotovoltaico da 3 Mw di cui l'ufficio tecnico comunale ha ammesso di non sapere nulla.

Di recente un consigliere comunale di Savigliano ha scritto in una lettera a La Stampa – posizione inspiegabilmente condivisa da molti – che la presenza dei pannelli non impedirebbe la prosecuzione dell'attività di semina e raccolta: il problema è che molti impianti richiedono l'installazione di plinti in cemento, che poco si sposano con un terreno in salute, e la presenza di un pannello modificherebbe il microclima della coltivazione (lo sanno bene i contadini che non vogliono, per fare un esempio chiarissimo a tutti, alte piante per delimitare il proprio campo).
Inoltre, sempre a Savigliano, il comitato locale ha inviato una richiesta al Comune per avviare un gruppo d'acquisto solidale per il fotovoltaico: un gruppo di persone e famiglie che vogliono costruire sui tetti delle proprie abitazioni un impianto, mettendosi insieme per ammortizzare i costi e migliorare la qualità dell'intervento.

«Autostrade, parcheggi, capannoni. – ci spiega il presidente di Legambiente Cuneo Gianfranco Peano - Quante sarebbero le superfici “nostre”da coprire, limitando inoltre l'impatto visivo da cemento esposto, per produrre energia davvero pulita? Perché l'energia pulita non si ha solamente quando per generarla si evita di produrre CO2, ma anche, e soprattutto, quando si impedisce che la natura e la sua cultura vengano deturpate irrimediabilmente».

Chiediamo allora cosa si può fare a livello locale per frenare la corsa al solare. «Ad esempio un paese della provincia di Torino, Carmagnola, ha varato una variante parziale al proprio piano regolatore. Indicando alcuni paletti, il messaggio del Comune è chiaro: quel terreno è intoccabile. Anche Rivalta, popoloso centro dell'hinterland torinese, ha deliberato in favore di un'attenta gestione delle risorse rinnovabili. Queste non sono misure definitive ma un primo passo per rallentare la speculazione di suolo in attesa che intervengano le Regioni e i piani ancora più in alto».

Il Movimento nazionale Stop al Consumo di Territorio ha inviato nei giorni scorsi questa richiesta ufficiale al Ministro Scajola ed al Presidente della Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie Locali:

Da diversi mesi stiamo assistendo con crescente preoccupazione al proliferare, in ogni angolo del nostro Paese, di nuovi impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili posti direttamente sui migliori terreni agricoli a nostra disposizione (I e II classe). Abbiamo denunciato più volte il pericolo che questa “fame” di nuova energia pulita rischi di compromettere la custodia attenta di terreni indispensabili al nostro fabbisogno ed alla nostra sovranità alimentare, anche attraverso una campagna di sensibilizzazione nazionale che ha messo in luce ancora più evidente il fenomeno in atto e le preoccupazioni anche di molti amministratori comunali. Poiché da parte del Legislatore non è ancora intervenuta una chiarificatrice ed improcrastinabile regolamentazione, siamo con la presente a richiederVi formalmente che le tanto attese Linee-Guida previste dall’art. 12, comma 10, del D.Lsg. n. 387/2003 (che, come noto, avrebbero la funzione di disciplinare correttamente lo svolgimento del procedimento di autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili ed assicurare loro, nel contempo, un corretto inserimento nei contesti paesaggistici) trovino immediata attuazione e che, parallelamente, ogni nuova autorizzazione venga sospesa in attesa che le suddette Linee-Guida trovino la loro compiuta definizione attuativa.

In un Paese che pare non sapersi dare delle regole, giungerà una nota positiva dal Governo in carica?

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